Lavoro e previdenza / Lo straining tra medicina legale ed apprezzamento giuridico

Il termine straining ha origine dall’inglese “to strain”, ovverosia “forzare, stringere, mettere sotto pressione” ed individua una nozione di tipo medico legale utile in ambito tecnico-giuridico in quanto espressione di un comportamento datoriale contrario ai doveri risultanti dall’art. 2087 c.c.

Secondo la definizione del Dott. Herald Ege, per “straining” si   intende: “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante”.

Circa l’esatta individuazione delle condotte, il Dott. Ege ritiene configurabile lo straining in considerazione di alcuni indici come l’ambiente lavorativo, il tipo di azioni realizzate, la loro frequenza anche isolata con effetti duraturi, la durata di almeno sei mesi, le posizione di inferiorità gerarchica di chi subisce, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio o l’obiettivo discriminatorio.

La nozione è entrata nel panorama giuridico, anche italiano, quale categoria e fattispecie autonoma già nel 2005 quando, nel corso di una causa pendente innanzi al Tribunale di Bergamo, veniva nominato consulente tecnico proprio il Dott. Ege ai fini della valutazione della ricorrenza di condotte mobbizzanti. Egli, non riscontrando gli estremi del mobbing, riteneva invece essersi concretata la diversa ipotesi di straining.

Secondo la giurisprudenza che si è di recente sviluppata, lo straining si pone in rapporto di continenza rispetto alla più ampia fattispecie di mobbing, costituendone un minus o meglio una forma attenuata.

Nello straining, infatti, sembra sufficiente anche una sola azione intenzionale idonea a sottoporre il lavoratore a uno stress superiore a quello normalmente richiesto dalla natura della prestazione.

Alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente, infatti: “è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844)”.

Rilevante e sufficiente, pertanto, appare non la reiterazione delle condotte datoriali, bensì l’effetto dannoso che anche una sola azione produce sulla condizione lavorativa della vittima e conseguentemente sulla salute del lavoratore.

A tale proposito, la norma quadro in materia, ossia l’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l’obbligo di assicurare la salute dei lavoratori, intesa quale integrità psico-fisica, con la massima diligenza possibile. Secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di prevenire, evitare ed eliminare: “situazioni <stressogene> che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, Cass. n. 3291 del 2016)” (Cass. 7844/2018).

Pur nella coscienza di avere a che fare con una fattispecie dai contorni ancora in divenire, giova precisare che la giurisprudenza propenda nel sostenere la configurabilità dello straining anche in assenza della prova compiuta circa la vessatorietà/discriminatorietà delle condotte datoriali ed il preciso intento persecutorio nei confronti del lavoratore, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare in ogni caso situazioni stressogene sul luogo di lavoro (Cass. civ. sez. lav. 4 ottobre 2019, n. 24883).

Lavoro e previdenza / La conservazione dei diritti dei lavoratori nel trasferimento d’azienda

L’art. 2112 c.c. introduce la disciplina del trasferimento d’azienda sancendo un principio cardine: “In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.

Lo scopo della disposizione è tutelare i rapporti di lavoro in essere con il soggetto cedente al momento del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, proteggendo il lavoratore dalle modificazioni soggettive della parte datoriale. Conseguenza immediata di questa tutela è che i rapporti di lavoro proseguono senza soluzione di continuità in capo alla nuova datrice di lavoro, ossia l’impresa cessionaria.

L’effetto quindi che si produce, alla luce della norma richiamata, non è unico, in quanto essa garantisce -oltre alla continuazione del rapporto di lavoro – anche la conservazione dei diritti che vi sono connessi.

Al riguardo, la dottrina ha ritenuto sussistere una successione del complesso delle posizioni giuridiche, attive e passive, che qualificano il rapporto di lavoro.

Pertanto, muovendo da tale assunto, i lavoratori avrebbero diritto al mantenimento globale del trattamento giuridico e retributivo già fruito alle dipendenze della impresa cedente.

Tuttavia, in concreto, quanto all’individuazione dei diritti che permangono inalterati a seguito della cessione d’azienda o di ramo d’azienda,  vale rilevare che la locuzione utilizzata dall’art. 2112 è ampia e tendenzialmente omnicomprensiva, riferendosi genericamente a “tutti i diritti” che derivino dal rapporto di lavoro.

Nello specifico, la Corte di Cassazione (cfr. sent. n. 19681/2003), alla luce del quadro normativo risultante dal disposto dell’art. 2112 c.c. e dalla Direttiva 77/187/CEE, ha individuato un nucleo di diritti che il lavoratore indubbiamente conserva al momento del passaggio alle dipendenze del cessionario: i cd. diritti quesiti. Si tratta di tutti quei diritti già maturati dal lavoratore al momento del trasferimento, oramai facenti parte della sua sfera patrimoniale.

 

Per effetto del trasferimento d’azienda, dunque, il lavoratore mantiene inalterati i diritti che trovano il loro fondamento e riconoscimento sia nel contratto individuale di lavoro sia nella legge, essendo questi ultimi conservati a prescindere dai mutamenti soggettivi del datore di lavoro. Per cui, inalterata la normativa di riferimento, il mutare del datore di lavoro dal punto di vista soggettivo non interferisce sulla maturazione dei diritti del lavoratore.

A titolo esemplificativo, i lavoratori ceduti non possono vedersi alterare o comprimere il diritto a svolgere le medesime mansioni esercitate per la cedente (nei limiti di cui all’art. 2103 c.c.). Lo stesso vale a dirsi quanto al riconoscimento di mansioni superiori, laddove una siffatta attribuzione trovi fonte e regolazione nella legge.

Infatti, entrambe le ipotesi trovano fondamento e disciplina direttamente nella legge che non subisce influenza al mutare del datore di lavoro.

Ancora, da un punto di vista economico, invariato rimane l’eventuale superminimo individuale, laddove disciplinato dal contratto individuale di lavoro. In questo caso, il diritto alla conservazione trova sostegno nella clausola contrattuale volta a disciplinare una singola posizione.

D’altro canto, pochi dubbi si pongono quanto alla conservazione dell’anzianità, alla luce della chiara giurisprudenza di legittimità (paradigmatiche in tal senso Cass. n. 2609/2008 e n. 19564/2006). Si tratterebbe, infatti, di un principio assoluto e non negoziabile, che trova fondamento nell’automatismo del transito del lavoratore dall’una all’altra parte datoriale, prescindendo da una nuova assunzione. Dal punto di visto economico, la giurisprudenza riconosce ai lavoratori il diritto all’applicazione da parte della cessionaria degli scatti di anzianità corrispondenti all’anzianità maturata presso la cedente, laddove appunto sia fornita la prova della sussistenza di un pregresso diritto alla maturazione di scatti di anzianità presso l’impresa cedente (Cass. n. 14208/2013, già in Cass. n. 6428/98).

Lavoro e previdenza / Buste paga ed insinuazione allo stato passivo fallimentare

Il prospetto paga (o cedolino) emesso dal datore di lavoro, se recante firma o sigla o timbro di quest’ultimo, fa piena prova del credito del lavoratore di cui si chiede l’insinuazione al passivo fallimentare.

Di contro, al curatore rimane la facoltà di contestare le risultanze delle buste paga con altri mezzi di prova ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’erroneità, la cui valutazione finale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.

Tutto questo perché il valore probatorio dei prospetti paga discende dal fatto che il contenuto degli stessi è obbligatorio e sanzionato in via amministrativa e, per ciò solo, è sufficiente a provare il credito maturato dal lavoratore.

Tali principi, da ultimo, sono stati ribaditi da Cass. ord. 27 maggio 2022, n. 17312, a conferma di un orientamento pluri-consolidato (cfr. anche Cass. civ., 19 gennaio 2022, n. 1649; Cass. civ. sez. lav., 7 gennaio 2021, n. 74; Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32395).

Nella predetta ord. n. 17312/22 la questione era stata posta da una lavoratrice che aveva presentato istanza di insinuazione al passivo del fallimento del proprio datore di lavoro, chiedendo l’ammissione, in via privilegiata, di crediti di lavoro a titolo di ferie non godute, indennità di mancato preavviso, ratei relativi alle mensilità aggiuntive e di T.F.R. ma che aveva ricevuto il diniego all’ammissione da parte del giudice delegato.

Il problema posto all’attenzione del giudice di legittimità riguardava la prova del credito vantato dal lavoratore dipendente dell’impresa fallita.

Come è noto, in sede di formazione dello stato passivo, le buste paga allegate dal creditore alla propria istanza di insinuazione dimostrano l’esistenza del credito fatto valere.

La Corte di Cassazione ha dato continuità all’indirizzo sopra richiamato ed ha rilevato il valore probatorio dei prospetti paga prodotti in atti dalla lavoratrice, anche in considerazione del fatto che la procedura fallimentare non aveva in alcun modo contestato l’asserita erroneità dei dati in esse contenuti.

Tuttavia, nella prassi è frequente che il creditore non chieda semplicemente l’ammissione al passivo per la mancata corresponsione di spettanze retributive attestate dai cedolini paga, ma anche il riconoscimento di differenze retributive derivanti da altre rivendicazioni, come può essere l’adibizione a mansioni superiori. In detta ipotesi, poiché l’istanza proposta non troverà accoglimento per difetto degli elementi costitutivi del credito fatto valere, lo strumento per ottenere il riconoscimento della domanda proposta da parte del lavoratore romane quello dell’opposizione allo stato passivo.

Giova precisare che una simile procedura si configura come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione in cui trovano applicazione le regole generali in tema di onere della prova. Per l’effetto, l’opponente sarà tenuto a fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto di credito; all’opposto, sulla curatela graverà l’onere di dimostrare l’esistenza di fatti modificativi, impeditivi o estintivi dell’obbligazione (Cass. civ. sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5847).

Pertanto, con riguardo alle differenze retributive rivendicate, sarà onere del lavoratore provare in maniera certa ed inequivoca l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società fallita e lo svolgimento del suddetto rapporto secondo le modalità dedotte. La prova della prestazione lavorativa in concreto effettuata, della sua durata, nonché dell’effettivo impegno in termini di giorni e di ore non potrà essere fornita mediante la produzione delle buste paga, dal momento che le voci retributive richieste saranno ulteriori o diverse rispetto a quelle in esse indicate. Se questo è vero, ne deriva che l’onere probatorio può essere assolto mediante prova testimoniale o documentale (diversa dai prospetti paga), sempre che queste offrano elementi certi in ordine alla sussistenza dei fatti posti dall’opponente a fondamento della domanda. Naturalmente, il mancato raggiungimento della prova comporterà inevitabilmente il rigetto della domanda proposta.

Lavoro e previdenza / Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e incentivazione all’esodo

La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è per lo più associata all’erogazione di emolumenti da parte del datore di lavoro finalizzata ad acquisire il consenso del lavoratore alla rinuncia della prosecuzione del rapporto di lavoro.
Infatti, il datore di lavoro sovente favorisce l’uscita dei dipendenti attraverso l’erogazione di importi a titolo di incentivo all’esodo.
Con riguardo all’entità della proposta economica incentivante, l’impresa datrice di lavoro ha libertà di azione e non è vincolata da legge o contrattazione collettiva.

Tuttavia, sarà buona norma adottare parametri che garantiscano un trattamento quantomeno equo tra i lavoratori, orientando, quindi, la contrattazione individuale lungo direttive che consentano di entrare nell’ottica del lavoratore per proporgli un bilanciamento tra quanto perde e come viene ristorato economicamente.
Un orientamento prudente suggerisce alla parte datoriale che l’ammontare minimo dell’incentivazione all’esodo possa essere individuato in un importo pari almeno all’indennità sostitutiva del preavviso per licenziamento prevista dal contratto collettivo.

Mentre, il criterio generalmente utilizzato al fine di valutare l’importo massimo dell’offerta è il rischio economico conseguente ad un’eventuale soccombenza nel giudizio instaurato per l’accertamento della legittimità in caso di licenziamento per motivo economico. Il cd. “rischio causa”, incrementato dell’indennità sostitutiva del preavviso, costituisce una valida esemplificazione del massimo che il lavoratore potrebbe ottenere qualora non  volesse in alcun modo raggiungere l’accordo.

Con particolare riferimento alle risoluzioni consensuali della categoria dei dirigenti, invece, appare necessario prendere in esame la particolare disciplina sanzionatoria prevista dalla loro contrattazione collettiva in caso di licenziamento ingiustificato.

A tutto questo si aggiungano come fattori da considerare come possibili rischi di causa i costi connessi ad un possibile licenziamento del lavoratore (contribuzione INPS su tale indennità sostitutiva del preavviso, ticket di licenziamento, spese legali, ecc.).
Infatti, conoscere le conseguenze economiche complessive di un licenziamento illegittimo può essere utile per stimare il possibile risparmio per l’azienda nel giungere ad un accordo di risoluzione consensuale e di conseguenza fissare criteri (anzianità, carichi familiari, prossimità alla pensione) di determinazione degli incentivi all’esodo.

Una volta identificato e concordato con il lavoratore l’ammontare offerto per la risoluzione consensuale, di prassi viene redatto un accordo, volto a rendere definitiva l’intesa, nel quale vengono inserite specifiche clausole finalizzate a mettere al riparo il datore di lavoro da possibili rivendicazioni connesse al rapporto di lavoro in fase conclusionale.

Nello specifico, mediante tali clausole, il lavoratore rinuncia ad ogni suo diritto, pretesa ed azione legale in ordine al pregresso rapporto di lavoro ab origine, alla sua esecuzione ed alla risoluzione del medesimo a fronte dell’erogazione di un importo a titolo transattivo.

Si rammenta che l’istituto della rinuncia costituisce una dichiarazione di volontà con la quale una parte dismette abdicativamente un proprio diritto, scegliendo di non goderne più. La rinuncia farà riferimento ad uno specifico oggetto e deve contenere la chiara rappresentazione dei diritti che vengono dismessi: se riferita ad ogni imprecisato diritto maturato nel corso del rapporto di lavoro, così come la rinuncia preventiva a futuri, eventuali e non precisati diritti, sarà radicalmente nulla. Invece, mediante la transazione, le parti facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già iniziata o prevengono una lite che potrebbe insorgere tra di loro.

L’accordo così perfezionato, infine, è soggetto all’obbligo di formalizzazione in una cd. sede protetta: infatti, le rinunce e/o le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide, salvo nei casi in cui siano contenute nei verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale, giudiziale o avanti la commissione di conciliazione istituita presso l’Ispettorato del lavoro o presso le sedi di certificazione.

In generale, si può affermare che le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro nonché quelle la cui erogazione trae origine proprio dalla predetta cessazione, fatta salva l’indennità sostitutiva del preavviso, tendenzialmente sono esenti da contribuzione.

Rientrano in tale fattispecie anche le somme erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, in eccedenza alle normali competenze comunque spettanti ed aventi lo scopo di indurre il lavoratore ad anticipare la risoluzione rispetto alla sua normale scadenza.

Una simile previsione, finalizzata ad evitare effetti distorsivi sulla base imponibile e pensionabile, ricomprende tutte quelle forme di erogazione prive di uno specifico titolo retributivo, corrisposte in sede di risoluzione del rapporto e la cui funzione, desumibile dalla volontà delle parti, sia riconducibile a quella di agevolare lo scioglimento del rapporto.

Al contrario, le somme corrisposte a titolo transattivo o di rinuncia ad alcuni diritti, trovando la propria causa nel rapporto di lavoro e non essendo ricomprese tra le fattispecie di esclusione, sono soggette anche a contribuzione previdenziale.

Occorre, infatti, tener conto sia del principio secondo il quale tutto ciò che il lavoratore riceve, in natura o in denaro, dal datore di lavoro in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro rientra nell’ampio concetto di “retribuzione imponibile” ai fini contributivi sia della assoluta indisponibilità, da parte dell’autonomia privata, dei profili contributivi che l’ordinamento collega al rapporto di lavoro.

Infine, si ritenga che, dal punto di vista fiscale, dovrà essere assoggettato a tassazione separata, con l’aliquota del TFR, sia l’incentivo all’esodo in quanto costituisce una somma percepita da parte del lavoratore una tantum in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro dipendente, sia gli importi transattivi erogati in sede di risoluzione consensuale.

Lavoro e previdenza / Introduzione alla “risoluzione consensuale” del rapporto di lavoro

Il rapporto di lavoro cessa notoriamente su decisione unilaterale di una delle parti contraenti (licenziamento del datore di lavoro o dimissioni del lavoratore), ma può cessare per l’effetto dell’espressione di un mutuo consenso con cui le due parti del rapporto convengano e sanciscano che è venuta meno la reciproca convenienza alla prosecuzione del rapporto contrattuale.

Tale cessazione del rapporto costituisce il tertium genus,  meglio nota come “risoluzione consensuale” del rapporto.

L’istituto della cd. risoluzione consensuale consente alle parti che hanno posto in essere un contratto di lavoro di risolvere il rapporto per mutuo consenso, liberandosi dai vincoli precedentemente ratificati.
In particolare, tale situazione si realizza nel momento in cui il datore di lavoro ed il lavoratore di comune intento e reciprocamente, manifestano e comunicano, in modo chiaro e certo, la loro volontà di porre fine al rapporto di lavoro.
Tale modalità di risoluzione del rapporto di lavoro si segnala per il suo carattere facoltativo, negoziale e consensuale: entrambe le parti riconoscono che è venuta meno la reciproca convenienza alla prosecuzione del rapporto contrattuale e decidono di porre fine allo stesso.
Essa si distingue, pertanto, dalle dimissioni spontanee, in cui la volontà di recedere dal rapporto è unilaterale da parte del lavoratore, o dal licenziamento, nel quale l’interruzione deriva esclusivamente dalla volontà del datore di lavoro.
Alla stregua di quanto sopra, alla cessazione del rapporto per risoluzione consensuale non si applicano né le norme a tutela del lavoratore previste per  i licenziamenti, né quelle previste per le dimissioni.
L’accordo di risoluzione consensuale è immediatamente efficace e pone termine al rapporto istantaneamente con decorrenza alla data concordata tra le parti e non vi è alcun obbligo del preavviso o di pagamento di correlate indennità sostitutive.
Non vi è, altresì, diritto di precedenza nelle riassunzioni presso la medesima azienda nei 6 mesi successivi la cessazione, in quanto trattasi di un istituto tipico delle cessazioni per licenziamento.
Seppur non vi sia l’obbligo della forma scritta, è buona norma, al fine di evitare controversie, formalizzare la risoluzione mediante la sottoscrizione di un accordo individuale, da siglarsi nella cd. sede protetta qualora esso contenga rinunce e transazioni.
Va detto infatti che, nella maggior parte dei casi, le risoluzioni consensuali sono “incentivate” da parte dell’azienda: il consenso espresso dal dipendente a rinunciare alla prosecuzione del rapporto di lavoro è, quindi, prestato dietro corresponsione di emolumenti a titolo di “incentivo all’esodo”.

Obblighi di comunicazione telematica.

Il Legislatore, al fine di combattere il fenomeno delle dimissioni cd. in bianco, oltre ad intervenire sulla disciplina delle dimissioni, ha modificato, dal 12 marzo 2016, anche le modalità di presentazione della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, prevedendo un’apposita procedura di convalida con modalità atte a garantire la genuinità della manifestazione della volontà del lavoratore.
in particolare, al fine di validare l’effettiva volontà del lavoratore a risolvere il rapporto, le risoluzioni consensuali devono essere trasmesse “telematicamente”, a pena di inefficacia, utilizzando specifici moduli previsti dal Ministero del lavoro.
L’invio telematico può essere curato direttamente dal lavoratore sul portale del Ministero o per il tramite di patronati, organizzazioni sindacali, consulenti del lavoro e presso le sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro, degli enti bilaterali e delle commissioni di certificazione.
In caso di ripensamento, entro 7 giorni dalla data di trasmissione del modulo, è sempre possibile revocare il recesso (le dimissioni o la risoluzione consensuale) con le medesime modalità.

Giova precisare che l’obbligo della procedura di trasmissione telematica (per le dimissioni come per la risoluzione consensuale) non si applica:

  • nelle ipotesi previste dall’art. 55, co. 4, D. Lgs. n. 151/2001 (gravidanza, maternità e paternità);
  • al lavoro domestico, ai rapporti di lavoro marittimo ed ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche;
  • nel caso in cui la risoluzione consensuale intervenga in sede protetta (art. 2113, c. 4, c.c.) o avanti alle commissioni di certificazione (art. 76, D.lgs. n. 276/2003);
  • in caso di recesso durante il periodo di prova.

Oltre a ciò, per quanto attiene agli adempimenti amministrativi che gravano in capo al datore di lavoro, questi è comunque tenuto a comunicare all’ANPAL la cessazione del rapporto di lavoro, anche nella forma della risoluzione consensuale, entro i 5 giorni successivi dalla data di cessazione del rapporto.
Tale comunicazione obbligatoria per il datore di lavoro rimarrà tuttavia inefficace se non è stata preceduta dalla trasmissione telematica obbligatoria della comunicazione di cessazione del rapporto da parte del lavoratore.

Obblighi di convalida.

Sono soggette a convalida obbligatoria presso l’Ispettorato del lavoro e non alla semplice presentazione telematica, le risoluzioni consensuali presentate:

  • dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza;
  • dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi 3 mesi di vita del bambino;
  • dalla lavoratrice o dal lavoratore nei primi 3 anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento.

L’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro è condizionata a tale convalida obbligatoria.
Si rammenta anche che, a seguito delle misure di contenimento del contagio da COVID-2019 ed al fine di consentire la convalida a distanza delle risoluzioni consensuali effettuate da lavoratrici madri e lavoratori padri, l’Ispettorato del Lavoro ha predisposto una nuova modulistica utilizzabile solo per la dura del periodo emergenziale.
In questa fase, infatti, il colloquio diretto con il funzionario dell’INL è sostituito da una dichiarazione resa mediante la compilazione e sottoscrizione di tale modulo che deve essere trasmesso al competente Ufficio mediante posta elettronica, unitamente alla copia del documento di riconoscimento e della lettera di dimissioni/risoluzione consensuale datata e firmata.

Preme rammentare anche che la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro della lavoratrice in conseguenza del matrimonio è soggetta ad obbligo di convalida che, però, in questo caso si aggiunge al necessario espletamento della procedura di trasmissione telematica.
Va da sé che le risoluzioni consensuali intervenute nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio ad un anno dopo la celebrazione delle nozze sono nulle, salvo che sia confermate dalla lavoratrice presso l’Ispettorato territoriale del lavoro entro un mese.
La nullità della risoluzione comporta la permanenza del rapporto di lavoro e il diritto della lavoratrice di richiedere in ogni momento la riammissione in servizio.

Lavoro / Ammortizzatori sociali e costi “occulti” per le aziende

Nell’attuale crisi sanitaria, economica e sociale, lo strumento delle integrazioni al reddito si è rivelato un mezzo necessario per sostenere le imprese, da un lato, e, dall’altro, per puntellare il reddito dei lavoratori dipendenti che si sono trovati nell’impossibilità di rendere la prestazione lavorativa per via delle restrizioni dovute alle disposizioni per il contenimento della pandemia.

Gli ammortizzatori sociali sono stati utilizzati, inoltre, come mezzo di compensazione del “blocco” dei licenziamenti imposto dallo Stato che, per ragione di tenuta sociale, ha fortemente limitato la libera iniziativa imprenditoriale.

L’intento del Governo è stato quindi quello di eliminare (melius, attutire) per le aziende il “costo del lavoro”.

Se da un lato possiamo dire che la volontà del Legislatore ha colto nel segno (le aziende non sostengono il costo della retribuzione ordinaria e della relativa contribuzione), da un altro lato non si tiene conto dei cd. costi “occulti” che rimangono comunque in capo al datore di lavoro.

La gestione emergenziale ha sicuramente snellito le procedure ed eliminato, almeno in parte, alcuni oneri che il datore di lavoro doveva sopportare in caso di utilizzo di ammortizzatore sociali “ordinari”.

Infatti, nel nostro ordinamento esistono numerosi ammortizzatori sociali cd. ordinari, utilizzati anche nel periodo emergenziale (CIGO – AO FIS – AO Fondi Bilaterali, FSBA, CISOA, CIGD), con regole e oneri diversi.

Esaminiamo brevemente tali costi, assumendo come esempio l’utilizzo della CIGO (cassa integrazione guadagni ordinaria), ossia l’ammortizzatore sociale principale e più utilizzato sia in forma “ordinaria” che “emergenziale”.

Il costo più rilevante sostenuto dalle imprese è il costo del finanziamento della CIGO. Infatti, tutte le imprese rientranti nel settore industria sono tenute al pagamento di un importo mensile calcolato sulla retribuzione imponibile dei dipendenti, che ha il preciso scopo di finanziare la gestione della cassa integrazione al di là dell’effettivo utilizzo.

La cassa integrazione ordinaria erogata per lo stato emergenziale, proprio per la sua particolarità, non viene alimentata da questo fondo, bensì direttamente da fondi dello Stato.

Per l’effetto, si può riconoscere come in questo caso, l’accesso all’ammortizzatore sociale non abbia attinto fondi dai versamenti contributivi delle aziende e, pertanto, non abbia costituito un onere per le stesse.

Nel caso di utilizzo degli ammortizzatori sociali, al costo del finanziamento si vanno ad aggiungere altri costi in parte contributivi ed in parte retributivi. Infatti, con la riforma degli ammortizzatori sociali ex D.Lgs 148/2015, è stato previsto un contributo aggiuntivo in caso di utilizzo da parte delle aziende di ore di cassa integrazione ordinaria.

La misura del contributo aggiuntivo è pari al 9% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate per un limite complessivo di 52 settimane. L’aliquota aumenta fino al 12% per gli interventi oltre le 52 settimane nel quinquennio mobile ed al 15% oltre le 104 settimane nel quinquennio mobile.

Tale contributo non è dovuto nel caso di eventi oggettivamente non evitabili, ovverosia casi fortuiti, improvvisi, non prevedibili e non rientranti nel rischio di impresa, dalle imprese sottoposte a procedure concorsuali e dalle imprese che ricorrono ai trattamenti ex art. 7 DL 148/1993. Allo stesso modo, nelle prime settimane di intervento di cassa integrazione per Covid-19, non è stato previsto alcun onere previdenziale aggiuntivo per le imprese fruitrici.

Viceversa, nelle successive ulteriori settimane concesse – dal decreto Agosto in poi- viene richiesto alle imprese che sospendono o riducono l’attività un contributo aggiuntivo correlato all’entità della perdita di fatturato registrata. In questo modo, il Governo ha cercato di finanziare parte dell’intervento, altrimenti a totale carico dello Stato, senza gravare sulle aziende maggiormente colpite dalla crisi.

L’introduzione del contributo aggiuntivo ha anche l’effetto di deflazionare l’eventuale utilizzo “improprio” della cassa integrazione. Per la stessa motivazione è stato previsto un bonus contributivo per quelle aziende che, nella seconda metà dell’anno, non ricorrano ad ammortizzatori sociali. Tale bonus risulta, come noto, essere correlato all’entità della sospensione dal lavoro registrata tra maggio e giugno 2020 dalla medesima azienda.

Non solo. Anche durante la sospensione coperta da CIGO emergenziale l’azienda deve sostenere alcuni costi che spesso risultano “occulti” per l’imprenditore. In questi casi, ai sensi dell’articolo 2120, co. 3 Codice Civile, continua a computarsi interamente il trattamento di fine rapporto“… in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro”.

Il lavoratore pertanto, anche durante l’assenza, matura per intero la quota di TFR come se non ci fosse stata alcuna sospensione o riduzione.

Oltre alla maturazione del trattamento di fine rapporto, bisogna considerare anche altri elementi che continuano la loro maturazione ordinaria quali: anzianità di servizio, scatti di anzianità, periodo di comporto.

Diverso discorso va fatto per i ratei delle mensilità aggiuntive e delle ferie. In via ordinaria, si avrà piena maturazione degli stessi ratei qualora la sospensione non sia stata maggiore di 15 giorni. Bisogna fare attenzione alla circostanza che la contrattazione collettiva nazionale, ma anche territoriale, può definire criteri di maturazione diversi e che gli accordi sindacali, eventualmente definiti in azienda per l’accesso agli ammortizzatori, possono prevedere comunque condizioni di miglior favore per il lavoratore.

In conclusione, anche le imprese che hanno le attività sospese e ricorrono alla CIGO con causale Covid-19 non azzerano totalmente il costo del lavoro.

 

 

 

 

Lavoro / Licenziamento vietato nel periodo di emergenza sanitaria per l’epidemia Covid-19: nullità del recesso e reintegra in servizio

I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (o quelli collettivi) intimati durante il divieto di licenziamento in vigore dal 17 marzo 2020 sono nulli ex art. 1418 c.c. per contrarietà a una norma imperativa. Ciò considerato,  il lavoratore licenziato per motivi economici nel periodo di vigenza del blocco potrà richiedere, oltre alla reintegrazione in servizio, il risarcimento del danno dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, con il minimo di cinque mensilità (art.18, comma 1, della legge 300/1970; art. 2 del D.lgs. 23/2015).

Sulle conseguenze sanzionatorie, in caso di violazione del divieto, si è espressa la giurisprudenza di merito, come il Tribunale di Mantova l’11 novembre 2020, dichiarando la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in violazione dell’espresso divieto introdotto dai decreti legge nn. 18/2020, 34/2020, 104/2020 e 137/2020 per fronteggiare l’emergenza Covid-19. Detto Tribunale ha sottolineato che il divieto di licenziamento nel corso dell’emergenza sanitaria è una tutela temporanea della stabilità dei rapporti, atta a salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico, aggiungendo che si tratta di una misura collegata a esigenze di ordine pubblico. Pertanto, il Tribunale mantovano ha concluso che il recesso in questione è affetto da radicale nullità, con conseguente applicabilità della tutela reale “piena” prevista dall’art. 18, comma 1, St. lav. e dall’art. 2, d.lgs. n. 23/2015.

Non solo. E’ inoltre nullo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la cui comunicazione scritta, spedita prima dell’inizio del blocco (17 marzo 2020), sia stata ricevuta successivamente all’entrata in vigore dell’art. 46 del Dl 18/2020. In questa ipotesi, la ratio della nullità discende dal principio generale per cui il licenziamento è un atto recettizio che, in base all’art. 1334 c.c.  produce effetto nel momento in cui arriva a conoscenza del soggetto al quale è destinato (Tribunale di Milano, 28 gennaio 2021).

Ancora il Tribunale di Milano ha dichiarato nullo altro licenziamento, questa volta intimato per mancato superamento del periodo di prova durante il divieto. In questo caso, infatti, non solo il patto di prova apposto al contratto era stato dichiarato nullo, ma emergeva contestualmente un collegamento tra il licenziamento intimato e la congiuntura economica negativa legata all’emergenza Covid-19 (Tribunale di Milano, 21 gennaio 2021).

Non meno interessante è la sentenza del Tribunale di Ravenna che, nel qualificare come oggettivo il licenziamento del lavoratore per inidoneità alla mansione, ha accertato la nullità del recesso intimato in costanza di divieto in base all’art. 1418 c.c., condannando la società resistente a reintegrare il lavoratore e al pagamento a titolo di risarcimento del danno ex art. 2 del D.lgs. 23/2015, trattandosi di un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 (Tribunale di Ravenna, 7 gennaio 2021).

Fermi restando i singoli casi trattati, la giurisprudenza di merito che si è occupata delle conseguenze del , il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel periodo di emergenza sanitaria per l’epidemia Covid-19, sembra concorde nel valutare il licenziamento in questione come nullo, perché contrario alle norme imperative previste dall’art. 1418 c.c. La nullità determinerà l’applicazione delle conseguenze sanzionatorie che ne derivano, ossia la reintegrazione in servizio, nei confronti di tutti i datori di lavoro, a prescindere dalla dimensione dell’azienda.

Cassazione / Sul licenziamento intimato tardivamente rispetto al termine previsto nel CCNL di riferimento.

Un interessante sentenza della Corte di Cassazione dello scorso anno (Cassazione civile, sez. lav., 3 settembre 2018 n. 21569) ha stabilito quali siano le conseguenze cui il datore di lavoro va incontro laddove commini un licenziamento che venga dichiarato illegittimo in quanto intimato oltre il termine previsto dal CCNL di riferimento.

Nella specie, la Corte ha ritenuto che la tardività del licenziamento, rispetto al termine previsto dal contratto collettivo per le giustificazioni rese dal lavoratore, non rappresenti una mera violazione di ordine procedurale, bensì un’ipotesi di insussistenza del fatto contestato, in considerazione del fatto che la mancata irrogazione al lavoratore della sanzione nei termini previsti equivale, secondo la Suprema Corte, ad implicito accoglimento delle giustificazioni rese dal dipendente.

In particolare la Suprema Corte si è espressa affermando che: “La violazione del termine stabilito dal contratto collettivo per l’irrogazione della sanzione, comportando un silenzio che vale come accettazione delle difese del lavoratore, si risolve in un venire contra factum proprium, contrario alla clausola di buona fede che presidia il rapporto di lavoro. Il licenziamento intimato nella vigenza della nuova disciplina introdotta dalla l. n. 92/2012 deve perciò considerarsi non semplicemente inefficace, per il mancato rispetto di un termine procedurale e dunque per motivi solo formali, bensì anche illegittimo per l’insussistenza del fatto contestato, per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa…”.

In definitiva, la Cassazione ha ritenuto applicabile in favore del lavoratore, nel caso concreto, la tutela prevista dall’art. 18, quarto comma, della l. n. 300/1970 – nella versione vigente ratione temporis – ossia la tutela reintegratoria (e non la sola tutela indennitaria) prevista dall’art. 18, quarto comma del medesimo Statuto dei Lavoratori.

In conclusione, la sentenza in commento ha ritenuto che la norma del CCNL, nella parte in cui prevede come conseguenza del ritardo nell’irrogazione della sanzione l’implicita accettazione delle giustificazioni del lavoratore, ancorché inserita in un contesto di norme procedurali, ha rango di norma sostanziale che regola il corretto esercizio del potere di recesso datoriale, anche in applicazione dei principi di correttezza e buona fede che presidiano il rapporto di lavoro.

Conservazione del posto e trattamento economico di malattia

Il periodo di conservazione del posto da parte del datore di lavoro (e l’eventuale relativo trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva) non può essere confuso con l’indennità economica di malattia posta a carico dell’INPS.

Infatti, nel caso di malattia del lavoratore, l’indennità economica di malattia garantita dall’istituto previdenziale pubblico è prevista per un periodo massimo di 180 giorni, è determinata in una misura percentuale (in via generale, 50% della Retribuzione Media Giornaliera dal 4° al 20° giorno e 66,66% dal 21° al 180° giorno) ed è posta a carico dell’INPS con il sistema del conguaglio (anticipata dal datore di lavoro e poi recuperata).

Viceversa, la conservazione del posto per il lavoratore in stato di malattia può prolungarsi, a norma del CCNL applicato in azienda, oltre l’indicato periodo indennizzato dall’INPS ed essere accompagnata dall’obbligo di pagamento dell’intera retribuzione ovvero di una misura percentuale della stessa.

Detta retribuzione, pertanto, una volta superato il periodo indennizzato dall’INPS, si pone come un onere – seppure ridotto e diversificato in relazione all’anzianità di servizio e ad altre condizioni previste dal CCNL di riferimento – posto solo a carico del datore di lavoro e direttamente legato al solo periodo di conservazione del posto.

Cassazione / Colloqui registrati in ambiente di lavoro e licenziamento illegittimo

Con sentenza n. 11322 del 10 maggio 2018, la Corte di Cassazione, modificando la decisione della Corte di Appello, ha affermato la illegittimità di un licenziamento adottato dal datore di lavoro che aveva contestato al dipendente la registrazione di conversazioni con colleghi all’insaputa degli stessi.

In primo grado il licenziamento era stato riconosciuto legittimo in quanto il lavoratore era stato ritenuto responsabile di una grave violazione della privacy, mentre in sede di appello il licenziamento, inteso come provvedimento disciplinare, era stato ritenuto sproporzionato ma il dipendente non era stato reintegrato, ottenendo una indennità risarcitoria pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto sulla base della previsione contenuta al comma 5 dell’art. 18 St. Lav.

La Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento in quanto le registrazioni effettuate andavano correlate ad un clima conflittuale presente in azienda e, in special modo, verso i superiori. A tali registrazioni è stato riconosciuto un valore finalizzato alla precostituzione di prove da far valere, a tutela dei propri diritti, in un eventuale procedimento difensivo (anche giudiziale), venendo, così, meno il rilievo di natura disciplinare.