Lavoro / Ammortizzatori sociali e costi “occulti” per le aziende

Nell’attuale crisi sanitaria, economica e sociale, lo strumento delle integrazioni al reddito si è rivelato un mezzo necessario per sostenere le imprese, da un lato, e, dall’altro, per puntellare il reddito dei lavoratori dipendenti che si sono trovati nell’impossibilità di rendere la prestazione lavorativa per via delle restrizioni dovute alle disposizioni per il contenimento della pandemia.

Gli ammortizzatori sociali sono stati utilizzati, inoltre, come mezzo di compensazione del “blocco” dei licenziamenti imposto dallo Stato che, per ragione di tenuta sociale, ha fortemente limitato la libera iniziativa imprenditoriale.

L’intento del Governo è stato quindi quello di eliminare (melius, attutire) per le aziende il “costo del lavoro”.

Se da un lato possiamo dire che la volontà del Legislatore ha colto nel segno (le aziende non sostengono il costo della retribuzione ordinaria e della relativa contribuzione), da un altro lato non si tiene conto dei cd. costi “occulti” che rimangono comunque in capo al datore di lavoro.

La gestione emergenziale ha sicuramente snellito le procedure ed eliminato, almeno in parte, alcuni oneri che il datore di lavoro doveva sopportare in caso di utilizzo di ammortizzatore sociali “ordinari”.

Infatti, nel nostro ordinamento esistono numerosi ammortizzatori sociali cd. ordinari, utilizzati anche nel periodo emergenziale (CIGO – AO FIS – AO Fondi Bilaterali, FSBA, CISOA, CIGD), con regole e oneri diversi.

Esaminiamo brevemente tali costi, assumendo come esempio l’utilizzo della CIGO (cassa integrazione guadagni ordinaria), ossia l’ammortizzatore sociale principale e più utilizzato sia in forma “ordinaria” che “emergenziale”.

Il costo più rilevante sostenuto dalle imprese è il costo del finanziamento della CIGO. Infatti, tutte le imprese rientranti nel settore industria sono tenute al pagamento di un importo mensile calcolato sulla retribuzione imponibile dei dipendenti, che ha il preciso scopo di finanziare la gestione della cassa integrazione al di là dell’effettivo utilizzo.

La cassa integrazione ordinaria erogata per lo stato emergenziale, proprio per la sua particolarità, non viene alimentata da questo fondo, bensì direttamente da fondi dello Stato.

Per l’effetto, si può riconoscere come in questo caso, l’accesso all’ammortizzatore sociale non abbia attinto fondi dai versamenti contributivi delle aziende e, pertanto, non abbia costituito un onere per le stesse.

Nel caso di utilizzo degli ammortizzatori sociali, al costo del finanziamento si vanno ad aggiungere altri costi in parte contributivi ed in parte retributivi. Infatti, con la riforma degli ammortizzatori sociali ex D.Lgs 148/2015, è stato previsto un contributo aggiuntivo in caso di utilizzo da parte delle aziende di ore di cassa integrazione ordinaria.

La misura del contributo aggiuntivo è pari al 9% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate per un limite complessivo di 52 settimane. L’aliquota aumenta fino al 12% per gli interventi oltre le 52 settimane nel quinquennio mobile ed al 15% oltre le 104 settimane nel quinquennio mobile.

Tale contributo non è dovuto nel caso di eventi oggettivamente non evitabili, ovverosia casi fortuiti, improvvisi, non prevedibili e non rientranti nel rischio di impresa, dalle imprese sottoposte a procedure concorsuali e dalle imprese che ricorrono ai trattamenti ex art. 7 DL 148/1993. Allo stesso modo, nelle prime settimane di intervento di cassa integrazione per Covid-19, non è stato previsto alcun onere previdenziale aggiuntivo per le imprese fruitrici.

Viceversa, nelle successive ulteriori settimane concesse – dal decreto Agosto in poi- viene richiesto alle imprese che sospendono o riducono l’attività un contributo aggiuntivo correlato all’entità della perdita di fatturato registrata. In questo modo, il Governo ha cercato di finanziare parte dell’intervento, altrimenti a totale carico dello Stato, senza gravare sulle aziende maggiormente colpite dalla crisi.

L’introduzione del contributo aggiuntivo ha anche l’effetto di deflazionare l’eventuale utilizzo “improprio” della cassa integrazione. Per la stessa motivazione è stato previsto un bonus contributivo per quelle aziende che, nella seconda metà dell’anno, non ricorrano ad ammortizzatori sociali. Tale bonus risulta, come noto, essere correlato all’entità della sospensione dal lavoro registrata tra maggio e giugno 2020 dalla medesima azienda.

Non solo. Anche durante la sospensione coperta da CIGO emergenziale l’azienda deve sostenere alcuni costi che spesso risultano “occulti” per l’imprenditore. In questi casi, ai sensi dell’articolo 2120, co. 3 Codice Civile, continua a computarsi interamente il trattamento di fine rapporto“… in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro”.

Il lavoratore pertanto, anche durante l’assenza, matura per intero la quota di TFR come se non ci fosse stata alcuna sospensione o riduzione.

Oltre alla maturazione del trattamento di fine rapporto, bisogna considerare anche altri elementi che continuano la loro maturazione ordinaria quali: anzianità di servizio, scatti di anzianità, periodo di comporto.

Diverso discorso va fatto per i ratei delle mensilità aggiuntive e delle ferie. In via ordinaria, si avrà piena maturazione degli stessi ratei qualora la sospensione non sia stata maggiore di 15 giorni. Bisogna fare attenzione alla circostanza che la contrattazione collettiva nazionale, ma anche territoriale, può definire criteri di maturazione diversi e che gli accordi sindacali, eventualmente definiti in azienda per l’accesso agli ammortizzatori, possono prevedere comunque condizioni di miglior favore per il lavoratore.

In conclusione, anche le imprese che hanno le attività sospese e ricorrono alla CIGO con causale Covid-19 non azzerano totalmente il costo del lavoro.

 

 

 

 

Lavoro / Licenziamento vietato nel periodo di emergenza sanitaria per l’epidemia Covid-19: nullità del recesso e reintegra in servizio

I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (o quelli collettivi) intimati durante il divieto di licenziamento in vigore dal 17 marzo 2020 sono nulli ex art. 1418 c.c. per contrarietà a una norma imperativa. Ciò considerato,  il lavoratore licenziato per motivi economici nel periodo di vigenza del blocco potrà richiedere, oltre alla reintegrazione in servizio, il risarcimento del danno dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, con il minimo di cinque mensilità (art.18, comma 1, della legge 300/1970; art. 2 del D.lgs. 23/2015).

Sulle conseguenze sanzionatorie, in caso di violazione del divieto, si è espressa la giurisprudenza di merito, come il Tribunale di Mantova l’11 novembre 2020, dichiarando la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in violazione dell’espresso divieto introdotto dai decreti legge nn. 18/2020, 34/2020, 104/2020 e 137/2020 per fronteggiare l’emergenza Covid-19. Detto Tribunale ha sottolineato che il divieto di licenziamento nel corso dell’emergenza sanitaria è una tutela temporanea della stabilità dei rapporti, atta a salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico, aggiungendo che si tratta di una misura collegata a esigenze di ordine pubblico. Pertanto, il Tribunale mantovano ha concluso che il recesso in questione è affetto da radicale nullità, con conseguente applicabilità della tutela reale “piena” prevista dall’art. 18, comma 1, St. lav. e dall’art. 2, d.lgs. n. 23/2015.

Non solo. E’ inoltre nullo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la cui comunicazione scritta, spedita prima dell’inizio del blocco (17 marzo 2020), sia stata ricevuta successivamente all’entrata in vigore dell’art. 46 del Dl 18/2020. In questa ipotesi, la ratio della nullità discende dal principio generale per cui il licenziamento è un atto recettizio che, in base all’art. 1334 c.c.  produce effetto nel momento in cui arriva a conoscenza del soggetto al quale è destinato (Tribunale di Milano, 28 gennaio 2021).

Ancora il Tribunale di Milano ha dichiarato nullo altro licenziamento, questa volta intimato per mancato superamento del periodo di prova durante il divieto. In questo caso, infatti, non solo il patto di prova apposto al contratto era stato dichiarato nullo, ma emergeva contestualmente un collegamento tra il licenziamento intimato e la congiuntura economica negativa legata all’emergenza Covid-19 (Tribunale di Milano, 21 gennaio 2021).

Non meno interessante è la sentenza del Tribunale di Ravenna che, nel qualificare come oggettivo il licenziamento del lavoratore per inidoneità alla mansione, ha accertato la nullità del recesso intimato in costanza di divieto in base all’art. 1418 c.c., condannando la società resistente a reintegrare il lavoratore e al pagamento a titolo di risarcimento del danno ex art. 2 del D.lgs. 23/2015, trattandosi di un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 (Tribunale di Ravenna, 7 gennaio 2021).

Fermi restando i singoli casi trattati, la giurisprudenza di merito che si è occupata delle conseguenze del , il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel periodo di emergenza sanitaria per l’epidemia Covid-19, sembra concorde nel valutare il licenziamento in questione come nullo, perché contrario alle norme imperative previste dall’art. 1418 c.c. La nullità determinerà l’applicazione delle conseguenze sanzionatorie che ne derivano, ossia la reintegrazione in servizio, nei confronti di tutti i datori di lavoro, a prescindere dalla dimensione dell’azienda.