Civile / Diffamazione a mezzo stampa: risarcibilità del danno non patrimoniale in favore delle persone giuridiche

La divulgazione di notizie lesive dell’onore e della reputazione altrui, oltre a configurare il reato di diffamazione disciplinato all’art. 595 c.p., costituisce un illecito civile ed è pertanto fonte di obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c.

I danni da diffamazione, generalmente, non involgono soltanto la sfera patrimoniale del soggetto danneggiato, ma si estendono a quelle situazioni giuridiche inerenti alla persona, non connotati da valore di scambio, e che sono pacificamente riconducibili nella categoria del danno non patrimoniale,  disciplinato all’art. 2059 c.c.

Nel nostro ordinamento, infatti, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore – costituzionalmente garantito – quale, a titolo esemplificativo, l’identità personale, il nome,  l’immagine e la reputazione.

Ebbene, tali diritti ricevono tutela principalmente con riferimento alle persone fisiche. Tuttavia, non vi è ragion di ritenere che la tutela di cui si discute sia preclusa per le persone giuridiche.

Il codice civile, infatti, disciplina, nel primo libro, sia le persone fisiche (art. 1 ss.) sia le persone giuridiche (art. 11 ss.), come due species di un unico genus, cui vengono riferite le norme dei successivi libri, nei limiti della compatibilità. Ciò porta ad escludere l’applicabilità alle persone giuridiche unicamente di quelle norme che presuppongono una determinata condizione fisica del soggetto (quali, ad esempio, quelle relative al matrimonio, alla filiazione ed ai rapporti di diritto familiare in genere).

Pertanto, anche le persone giuridiche possono godere di quelle forme di protezione che discendono direttamente dal dettato costituzionale ed in modo particolare dalla previsione generale dell’art. 2 Cost. che tutela le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.

Sul punto, si richiama il granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale il danno non patrimoniale all’immagine ed alla reputazione si può configurare anche nei confronti della persona giuridica quando il fatto lesivo colpisce una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione (Cass., sez. I, n. 12929/2007; Cass., sez. III, n. 29185/2008; Cass., sez. III, n. 20643/2016).

Ebbene, poiché l’immagine della persona giuridica rientra tra tali diritti, può essere risarcito anche il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica nella quale si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che tale riduzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente, e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della riduzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica sovente interagisce.

Quanto alla prova della lesività della condotta e del conseguente verificarsi del danno-conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che essa è raggiunta anche mediante il ricorso a presunzioni, quali, ad esempio la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (ex multis: Cass. civ., sez. 3, 26 ottobre 2017 n. 25420, Cass. civ., sez. 6, 31 marzo 2021 n. 8861).

 

Infine, la quantificazione e liquidazione di tali danni dovrà avvenire in ragione di un criterio equitativo, secondo parametri cristallizzati dal lavoro della giurisprudenza ma che, in ogni caso, dovranno aver riguardo alla coscienza nei responsabili della potenzialità lesiva della pubblicazione della altrui reputazione, alla attribuzione di fatti offensivi determinati e circostanziati, alla diffusione del giornale, alla credibilità di cui gode presso il pubblico, alla collocazione ed evidenza grafica degli articoli stessi, alla gravità dell’addebito, alla suggestione indotta nei lettori.

Lavoro e previdenza / Buste paga ed insinuazione allo stato passivo fallimentare

Il prospetto paga (o cedolino) emesso dal datore di lavoro, se recante firma o sigla o timbro di quest’ultimo, fa piena prova del credito del lavoratore di cui si chiede l’insinuazione al passivo fallimentare.

Di contro, al curatore rimane la facoltà di contestare le risultanze delle buste paga con altri mezzi di prova ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’erroneità, la cui valutazione finale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.

Tutto questo perché il valore probatorio dei prospetti paga discende dal fatto che il contenuto degli stessi è obbligatorio e sanzionato in via amministrativa e, per ciò solo, è sufficiente a provare il credito maturato dal lavoratore.

Tali principi, da ultimo, sono stati ribaditi da Cass. ord. 27 maggio 2022, n. 17312, a conferma di un orientamento pluri-consolidato (cfr. anche Cass. civ., 19 gennaio 2022, n. 1649; Cass. civ. sez. lav., 7 gennaio 2021, n. 74; Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32395).

Nella predetta ord. n. 17312/22 la questione era stata posta da una lavoratrice che aveva presentato istanza di insinuazione al passivo del fallimento del proprio datore di lavoro, chiedendo l’ammissione, in via privilegiata, di crediti di lavoro a titolo di ferie non godute, indennità di mancato preavviso, ratei relativi alle mensilità aggiuntive e di T.F.R. ma che aveva ricevuto il diniego all’ammissione da parte del giudice delegato.

Il problema posto all’attenzione del giudice di legittimità riguardava la prova del credito vantato dal lavoratore dipendente dell’impresa fallita.

Come è noto, in sede di formazione dello stato passivo, le buste paga allegate dal creditore alla propria istanza di insinuazione dimostrano l’esistenza del credito fatto valere.

La Corte di Cassazione ha dato continuità all’indirizzo sopra richiamato ed ha rilevato il valore probatorio dei prospetti paga prodotti in atti dalla lavoratrice, anche in considerazione del fatto che la procedura fallimentare non aveva in alcun modo contestato l’asserita erroneità dei dati in esse contenuti.

Tuttavia, nella prassi è frequente che il creditore non chieda semplicemente l’ammissione al passivo per la mancata corresponsione di spettanze retributive attestate dai cedolini paga, ma anche il riconoscimento di differenze retributive derivanti da altre rivendicazioni, come può essere l’adibizione a mansioni superiori. In detta ipotesi, poiché l’istanza proposta non troverà accoglimento per difetto degli elementi costitutivi del credito fatto valere, lo strumento per ottenere il riconoscimento della domanda proposta da parte del lavoratore romane quello dell’opposizione allo stato passivo.

Giova precisare che una simile procedura si configura come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione in cui trovano applicazione le regole generali in tema di onere della prova. Per l’effetto, l’opponente sarà tenuto a fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto di credito; all’opposto, sulla curatela graverà l’onere di dimostrare l’esistenza di fatti modificativi, impeditivi o estintivi dell’obbligazione (Cass. civ. sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5847).

Pertanto, con riguardo alle differenze retributive rivendicate, sarà onere del lavoratore provare in maniera certa ed inequivoca l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società fallita e lo svolgimento del suddetto rapporto secondo le modalità dedotte. La prova della prestazione lavorativa in concreto effettuata, della sua durata, nonché dell’effettivo impegno in termini di giorni e di ore non potrà essere fornita mediante la produzione delle buste paga, dal momento che le voci retributive richieste saranno ulteriori o diverse rispetto a quelle in esse indicate. Se questo è vero, ne deriva che l’onere probatorio può essere assolto mediante prova testimoniale o documentale (diversa dai prospetti paga), sempre che queste offrano elementi certi in ordine alla sussistenza dei fatti posti dall’opponente a fondamento della domanda. Naturalmente, il mancato raggiungimento della prova comporterà inevitabilmente il rigetto della domanda proposta.