L’azione disciplinare può definirsi come la reazione che l’ordinamento prevede di fronte alla violazione di norme di contenuto deontologico.
La prima questione da affrontare concerne l’individuazione del novero delle violazioni che danno luogo a procedimento disciplinare.
In primis, giova premettere che non esiste un numerus clausus di infrazioni, un elenco tipizzato di comportamenti che consentono l’esercizio del potere disciplinare. È lecito pertanto affermare che i principi, i doveri e le regole previste dal Codice deontologico professionale non costituiscano un’elencazione tassativa.
Se per un verso, infatti, il procedimento disciplinare si pone come necessaria conseguenza della violazione dei precetti di natura deontologica, imposti a ciascun professionista, dall’altro questi precetti e doveri non rinvengono la loro fonte esclusivamente nel codice di deontologia professionale. In buona sostanza, anche comportamenti che non trovano espresso divieto nel codice deontologico possono dar luogo a un procedimento disciplinare.
Ciò trova la sua ratio nel fatto che la deontologia professionale affonda le sue radici nell’etica professionale la quale, a sua volta, trova corrispondenza nel comune sentire.
In altre parole, il sistema dei doveri relativi ad una categoria di professionisti si realizza nel corso del tempo sulla base di regole di natura e contenuto prettamente etici. È l’etica, nel senso di complesso di norme morali e di costume che connotano una professione, a individuare quali comportamenti siano così degradanti da meritare l’esercizio dell’azione disciplinare ed eventualmente l’irrogazione di una sanzione. È proprio il sentire della comunità in un dato momento storico a individuare regole comportamentali e doveri del professionista, integrando e completando le disposizioni codicistiche.
Questo legame tra deontologia ed etica determina inevitabilmente che le regole deontologiche mutino nel corso del tempo, di modo che ciò che costituiva violazione in un pregresso momento storico e contesto sociale potrebbe non esserlo più in epoca successiva.
Alla luce delle considerazioni appena svolte è possibile comprendere il vero scopo dell’azione disciplinare che, lungi dal caratterizzarsi quale mero strumento inquisitorio, assolve la funzione di vera e propria tutela dell’ordine professionale.
Infatti, il fine dell’azione disciplinare è quello di salvaguardare il corretto esercizio della professione nell’ottica dei principi di dignità, onorabilità e correttezza che la informano e la permeano. Principi che, giova rammentarlo, costituiscono in fondo il punto di partenza per l’individuazione delle condotte disciplinarmente rilevanti.
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La natura “mista” del procedimento disciplinare.
Come si è già avuto modo di vedere nei precedenti approfondimenti, il procedimento disciplinare si conclude con una decisione del Consiglio di Disciplina preposto la quale, a seconda dei casi, può essere rappresentata dall’irrogazione di una sanzione ovvero dall’archiviazione del procedimento.
Può notarsi subito che le due locuzioni lessicali adoperate per individuare i provvedimenti del Consiglio di Disciplina fanno pensare immediatamente agli analoghi provvedimenti del procedimento penale. Di talché la domanda sorge spontanea: questi provvedimenti hanno natura giurisdizionale o amministrativa?
Ebbene, a dispetto del nomen, entrambi hanno natura amministrativa. Invero, l’intero procedimento disciplinare ha natura amministrativa e si conforma alla normativa prevista per l’agire amministrativo.
D’altronde, il quadro normativo di riferimento è costituito innanzitutto dal dettato normativo specificamente dedicato al procedimento disciplinare (R.D. 274/29 e D.P.R. 137/12) ma anche, pacificamente, dalla Legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, in via sussidiaria e in quanto compatibile. Ossia, vige una generale clausola di compatibilità, secondo cui la citata legge sul procedimento amministrativo trova applicazione se non in contrasto con quanto previsto dalla disciplina specifica del procedimento disciplinare.
Ad ogni modo, sebbene non vi siano dubbi circa la natura amministrativa dell’azione disciplinare, essa conserva due caratteri propri dell’attività giurisdizionale.
1) L’obbligatorietà dell’azione.
Carattere tipico dell’attività giurisdizionale è quello dell’obbligatorietà, che comporta il dovere per l’autorità giudiziaria adita di proseguire il giudizio fino all’adozione di un provvedimento decisorio.
In un’ottica sostanzialmente analoga si pone il principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare, seppur con una precisazione. In realtà, l’obbligatorietà dell’azione disciplinare comporta che il Consiglio di Disciplina ha l’obbligo di dare seguito all’azione disciplinare laddove ravvisi:
- indizi gravi, precisi e concordanti riguardo la commissione di una condotta deontologicamente rilevante
- la sua attribuibilità ad un soggetto determinato e legittimato.
Sussistendo tali presupposti, il Consiglio non ha potere discrezionale, dovendo disporre, come meglio si vedrà, il cd. rinvio a giudizio disciplinare.
Tuttavia, va ribadito per dovere di chiarezza, l’obbligatorietà concerne esclusivamente l’attivazione del procedimento disciplinare, non incidendo in alcun modo sulla decisione. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare non deve, infatti, essere intesa quale presunzione di responsabilità in capo al destinatario della stessa.
Invero, il Consiglio di Disciplina gode di discrezionalità in ordine all’accertamento dei fatti e della responsabilità del professionista, nonché in merito all’adozione del provvedimento di archiviazione ovvero nel comminare una sanzione.
Pertanto, può concludersi che non sussiste alcun vincolo di interdipendenza necessaria tra l’obbligatorietà dell’azione disciplinare (ossia di promuovere l’azione disciplinare in presenza di una “notitia criminis”) e l’irrogazione della sanzione disciplinare (che rimane eventuale e comminabile solo all’esito dell’intero procedimento).
2) La prescrizione dell’illecito.
Ulteriore carattere dell’azione disciplinare comune a quella giurisdizionale concerne la prescrizione dell’illecito deontologico.
La prescrizione svolge la funzione di tutelare il professionista, ponendo un limite temporale all’esercizio dell’azione disciplinare.
Infatti, in mancanza, si verserebbe nell’assurdo per cui il singolo professionista che ha commesso un illecito deontologico avrebbe sulla testa la spada di Damocle dell’avvio di un procedimento disciplinare nei suoi confronti sine die, ossia fino alla fine del suo excursus professionale.
Un simile paradosso è di certo incompatibile con le garanzie che informano l’attività amministrativa e nella specie la tipizzazione di un procedimento disciplinare.
Pertanto, sebbene, l’art. 12 del R.D. 274/29 nulla preveda in ordine alla prescrizione, si ritiene estendibile al procedimento disciplinare il termine di cinque anni decorrente dalla commissione del fatto. Il termine di prescrizione quinquennale è, difatti, previsto specificamente in relazione ad altre professioni e non vi sono ostacoli alla sua applicazione analogica anche alla professione del Geometra.
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Ambito soggettivo ed oggettivo dell’azione disciplinare.
Prima di procedere all’esame del procedimento disciplinare e delle sue varie fasi (su cui ci soffermeremo compiutamente nel prossimo contributo), occorre delimitare l’ambito soggettivo ed oggettivo dell’azione disciplinare, enucleando i presupposti della stessa.
Ambito soggettivo (geometra iscritto all’Albo vs. Consiglio di disciplina).
- Legittimazione passiva. Destinatari dell’azione disciplinare sono ad ogni evidenza i geometri professionisti.
Requisito per la sottoposizione al procedimento disciplinare è dunque l’iscrizione all’albo professionale. Infatti, legittimati passivi dell’azione disciplinare sono i soggetti iscritti all’albo professionale dei Geometri.
- Legittimazione attiva. Viceversa, legittimato attivo all’esercizio dell’azione disciplinare è il Consiglio di disciplina del Collegio di appartenenza del professionista.
Pertanto, la competenza dal punto di vista territoriale ad azionare il procedimento disciplinare è fondata su un criterio formalistico, consistente nell’ambito territoriale di iscrizione del Geometra al singolo Collegio territoriale. Semplificando, eserciterà l’azione disciplinare il Consiglio territoriale nel cui albo il professionista è iscritto, non necessariamente coincidente con quello in cui il geometra opera e, quindi, in cui l’illecito disciplinare è stato realizzato.
Come premesso, il Consiglio di disciplina è competente ad avviare l’azione disciplinare. Tuttavia, non è automatico che sia anche competente a pronunciarsi sulla stessa azione. Nel senso che, il D.P.R. 137/12 ha istituito presso ogni Consiglio di disciplina dei Collegi territoriali preposti ad istruire i procedimenti disciplinari e ad assumerne le relative decisioni.
Dal punto di vista organico, dunque, il Consiglio di disciplina può essere unico, composto esclusivamente da tre Consiglieri ovvero suddiviso in Collegi. Tale eventualità viene in rilievo laddove i Consigli di disciplina siano composti da più di tre componenti. In questi casi, vengono costituiti più Collegi tri-personali.
Dunque, da una parte il Consiglio di disciplina avvia un’azione disciplinare, dall’altra designa al suo interno il Collegio giudicante. La distinzione trova fondamento nella diversa funzione svolta dagli organi: il Consiglio è preposto all’attività preliminare-istruttoria, per individuare le condotte rilevanti dal punto di vista disciplinare; il Collegio, quale organo in concreto giudicante, subentra nella fase eventuale e successiva del rinvio a giudizio.
Ambito oggettivo: la condotta tipica ed atipica.
Dal punto di vista oggettivo, atteso quanto già anticipato in tema di atipicità dell’illecito, vale porre in rilievo che sono suscettibili di sanzione non soltanto i comportamenti tenuti dal professionista nell’esercizio della professione, bensì anche le condotte estrinsecatesi al di fuori di essa, laddove siano suscettibili di recare pregiudizio alla categoria professionale.
Nello specifico, l’art. 11 del R.D. n. 274/29 prevede che le sanzioni disciplinari sono applicabili a fronte di violazioni commesse dal professionista “nell’esercizio della professione”.
Dalla lettera della legge sembrerebbe l’irrogazione delle sanzioni sia racchiusa nell’alveo dei comportamenti tenuti durante l’esercizio della professione in occasione della stessa.
Tuttavia, la giurisprudenza ha teso ad ampliare il novero delle condotte suscettibili di indagine e sanzione, valorizzando il criterio dell’atipicità. Secondo tale impostazione, sono idonee a dare avvio al procedimento disciplinare anche condotte che sia siano verificate in ambiti diversi da quello professionale.
Per comprendere la ragione di ciò, vale richiamare quanto già specificato in ordine allo scopo dell’azione disciplinare. Il principio della tutela della dignità ed onorabilità della professione determina che il professionista sia sanzionabile anche laddove, al di fuori della sua attività professionale, il suo operato si rifletta negativamente sulla intera categoria, sul decoro e la reputazione della collettività professionale a cui si appartiene.
Sulla questione, la Giurisprudenza ha posto l’accento sull’offensività al decoro della professione dei comportamenti posti in essere. In tal modo, le condotte rilevanti ai fini dell’avvio della procedura disciplinare, non soltanto, sono svincolate dalla mera violazione di prescrizioni di legge civile o penale, ovvero dalle disposizioni previste dal codice deontologico, ma possono comprendere ulteriori comportamenti che, seppur non strettamente inerenti con l’esercizio della professione, si riflettano negativamente sulla stessa.