Professionisti / Il procedimento disciplinare a carico dei geometri e le sue fasi

Con il presente commento – che fa seguito ai precedenti approfondimenti in merito al Codice di Deontologia Professionale dei Geometri – proseguiamo l’analisi del procedimento disciplinare ex art. 12 RD n. 274/1929, come integrato dal DPR 7 agosto 2012, n. 137.

Il procedimento disciplinare e le sue fasi

Il procedimento disciplinare può essere analizzato distinguendo almeno cinque fasi:

  1. Impulso;
  2. Istruzione preliminare;
  3. Non luogo a procedere o rinvio a giudizio disciplinare;
  4. Trattazione;
  5. Decisione

1. Impulso

Tre sono i modi con cui il Consiglio di disciplina dà avvio alla procedura disciplinare: tramite segnalazione, su richiesta del Pubblico Ministero ovvero d’ufficio.

  • La segnalazione: chiunque vi abbia interesse può dare impulso all’azione disciplinare mediante un “esposto” al Collegio di disciplina territoriale, con indicazione della notizia del presunto illecito deontologico commesso da un professionista iscritto al medesimo albo professionale. Ricevuto l’esposto (sotto qualsiasi forma), il Collegio deve trasmettere la segnalazione al Presidente del Consiglio di disciplina per i successivi adempimenti.
  • La richiesta del PM: è il Pubblico Ministero che, avuta notizia della presunta condotta disciplinarmente illecita, richiede l’avvio della procedura al Consiglio.
  • L’azione d’ufficio: su istanza di uno o più membri del Consiglio di disciplina a seguito dell’avvenuta conoscenza di illeciti disciplinari comunque appresi.

In tutti i casi, elemento essenziale e comune all’avvio del procedimento disciplinare è la notizia della commissione di un illecito a presunto rilievo disciplinare, la cd. notitia criminis. Infatti, il Consiglio di disciplina può attivare la procedura soltanto se ha avuto conoscenza di un presunto illecito disciplinare e non in via meramente autonoma. È l’atto di impulso che rende legittimo l’avvio della procedura, dovendosi escludere un autonomo potere in tal senso in capo al Consiglio di disciplina, ossia al Presidente di tale Consiglio.

  1. Istruttoria preliminare.

Il comma 2 dell’art. 12 del R.D. 274/29 prevede che: “Il presidente del (Consiglio di disciplina), verificati sommariamente i fatti, raccoglie le opportune informazioni e, dopo di avere inteso l’incolpato, riferisce al (Consiglio di disciplina), il quale decide se vi sia luogo a procedimento disciplinare”.

Il disposto citato disciplina in maniera semplice e chiara la fase istruttoria preliminare, individuando il soggetto preposto al suo svolgimento, l’oggetto su cui verte ed i suoi possibili esiti.

Preposto allo svolgimento dell’istruttoria preliminare è il Presidente del Consiglio di disciplina, il quale, all’esito del raccordo con le intervenute modifiche al Regio Decreto n. 274/29, ha il potere di assumere tutte le informazioni opportune per lo svolgimento delle indagini. A titolo esemplificativo, il Presidente può estrarre copia della documentazione necessaria custodita presso pubblici uffici e può, tramite istanza al Procuratore della Repubblica, persino avvalersi degli organi di polizia giudiziaria.

In concreto, l’attività istruttoria consiste nell’assunzione di tutte le informazioni opportune per lo svolgimento delle indagini da parte del Presidente del Consiglio di disciplina o di un consigliere delegato.

Tale fase, essendo preposta all’assunzione delle informazioni necessarie a verificare l’opportunità o meno dell’apertura del procedimento disciplinare vero e proprio, si colloca in una fase antecedente al vero e proprio procedimento disciplinare. L’istruttoria consente di verificare il fondamento dei fatti emersi con l’atto d’impulso, valutarne la consistenza ed il rilievo disciplinare, nell’ottica di indagare ed accertare solo fatti e circostanze che potenzialmente integrino violazione deontologiche.

  1. Non luogo a procedere o rinvio a giudizio disciplinare.

Esaurita questa attività preliminare d’indagine e di vaglio dei fatti che costituiscano violazioni di norme deontologiche, il Presidente non può esercitare in concreto l’attività giudicante, ma deve relazionare al Consiglio di disciplina, il quale solamente può delibare circa l’esercizio dell’azione disciplinare, ossia decidere in concreto se avviare o meno il procedimento.

In particolare, a questo punto, esaminato quanto rilevato dal Presidente, il Consiglio di disciplina si trova di fronte a due strade alternative ed opposte tra di loro:

a) il non luogo a procedere: viene emesso laddove il Consiglio ravvisi l’inesistenza dei fatti di rilievo disciplinare. Chiamato altresì “archiviazione”, il provvedimento non ha natura decisoria in senso giurisdizionale, ma meramente amministrativa, con due conseguenze di rilievo: da una parte, esso non può essere impugnato (ossia il ricorso dell’esponente contro il provvedimento di archiviazione è destinato a essere dichiarato inammissibile da parte del CNGeGL), dall’altra, un provvedimento di non luogo a procedere non esclude che il Consiglio di disciplina possa valutare di dare avvio a un nuovo procedimento fondato sui medesimi fatti ma sulla scorta dell’acquisizione di eventuali nuovi elementi documentali;

b) il rinvio a giudizio disciplinare: si avrà allorché il Consiglio rinvenga la sussistenza di circostanze che appaiono di rilevanza disciplinare. Ciò comporta la nomina di un “collegio” di tre consiglieri che sarà preposto a gestire il giudizio assegnatogli. Il Presidente del collegio di disciplina nomina il consigliere relatore (che si preoccuperà dell’istruzione del giudizio) e fissa la seduta del collegio per la discussione. L’iscritto in questo modo da indagato diviene “incolpato”.

  1. Trattazione.

A questo punto, il procedimento disciplinare prende concretamente avvio ed è necessario convocare l’incolpato. A tal fine, il Presidente del Collegio assegnatario dà notizia della fissazione della seduta di discussione all’indagato e del rinvio a giudizio (almeno dieci giorni prima) per consentirgli di presentare giustificazioni e documentazione a difesa.

In particolare, tale termine svolge la funzione di:

  • garantire al professionista indagato un congruo termine per predisporre le sue difese. In quest’ottica, il termine di dieci giorni prima della seduta per l’avviso all’indagato è considerato a pena di annullamento di tutto il procedimento laddove sia in concreto lesivo del diritto di difesa;
  • invitare l’indagato a comparire alla stessa per essere sentito e produrre documenti a difesa;
  • garantire il contraddittorio contenendo una chiara contestazione dell’addebito disciplinare mosso al professionista.

Alla seduta fissata per la convocazione dell’incolpato, si procede alla discussione dei fatti oggetto del procedimento. Nella seduta ha luogo la discussione formale del giudizio in cui vengono sentiti il relatore, l’incolpato (e/o il suo difensore), eventuali testimoni e se, del caso, persino il soggetto che ha avanzato l’esposto.

Si rammenti che, qualora l’incolpato ritualmente convocato non compaia alla seduta o non giustifichi la sua assenza con un legittimo impedimento, il Collegio giudicante procederà lo stesso in sua assenza ad istruire il giudizio.

Va anche ricordato che, nel caso in cui il Collegio aggiorni la seduta di discussione per qualsivoglia motivo (approfondimenti, nuovi accertamenti, necessità di acquisizioni documentali), lo stesso Collegio dovrà procedere ad una nuova formale convocazione dell’iscritto incolpato.

  1. Decisione.

All’esito della discussione, il Collegio può adottare immediatamente la decisione ovvero rinviare la decisione ad un secondo momento. In ogni caso, la seduta del Collegio non è pubblica e la decisione è adottata a porte chiuse.

La decisione del Collegio potrà essere di “archiviazione” ovvero di adozione della “sanzione” disciplinare.

Le sanzioni irrogabili all’incolpato ritenuto responsabile dell’addebito disciplinare contestatogli sono quelle di cui all’art. 11 del RD n. 274/1929: avvertimento, censura, sospensione dall’esercizio della professione (fino ad un massimo di sei mesi), cancellazione dall’albo professionale.

Si può concludere ricordando che se, da un lato, le sanzioni sono rigidamente tipizzate dall’ordinamento professionale (ossia, non sono previste sanzioni diverse da quelle sopra elencate), dall’altro, nel Codice di Deontologia vi è una mancata tipizzazione degli illeciti disciplinari, per cui le sanzioni non sono collegate a specifiche fattispecie deontologiche.

Tanto che il Collegio di disciplina, allorché decida di irrogare la sanzione, non è obbligato a seguire rigorosamente l’ordine delle sanzioni di cui all’art. 11 e soprattutto ha facoltà di adottare sanzioni diverse per la medesima infrazione, secondo una sua discrezionale valutazione purché adeguatamente motivata.

Lavoro e previdenza / Lo straining tra medicina legale ed apprezzamento giuridico

Il termine straining ha origine dall’inglese “to strain”, ovverosia “forzare, stringere, mettere sotto pressione” ed individua una nozione di tipo medico legale utile in ambito tecnico-giuridico in quanto espressione di un comportamento datoriale contrario ai doveri risultanti dall’art. 2087 c.c.

Secondo la definizione del Dott. Herald Ege, per “straining” si   intende: “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante”.

Circa l’esatta individuazione delle condotte, il Dott. Ege ritiene configurabile lo straining in considerazione di alcuni indici come l’ambiente lavorativo, il tipo di azioni realizzate, la loro frequenza anche isolata con effetti duraturi, la durata di almeno sei mesi, le posizione di inferiorità gerarchica di chi subisce, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio o l’obiettivo discriminatorio.

La nozione è entrata nel panorama giuridico, anche italiano, quale categoria e fattispecie autonoma già nel 2005 quando, nel corso di una causa pendente innanzi al Tribunale di Bergamo, veniva nominato consulente tecnico proprio il Dott. Ege ai fini della valutazione della ricorrenza di condotte mobbizzanti. Egli, non riscontrando gli estremi del mobbing, riteneva invece essersi concretata la diversa ipotesi di straining.

Secondo la giurisprudenza che si è di recente sviluppata, lo straining si pone in rapporto di continenza rispetto alla più ampia fattispecie di mobbing, costituendone un minus o meglio una forma attenuata.

Nello straining, infatti, sembra sufficiente anche una sola azione intenzionale idonea a sottoporre il lavoratore a uno stress superiore a quello normalmente richiesto dalla natura della prestazione.

Alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente, infatti: “è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844)”.

Rilevante e sufficiente, pertanto, appare non la reiterazione delle condotte datoriali, bensì l’effetto dannoso che anche una sola azione produce sulla condizione lavorativa della vittima e conseguentemente sulla salute del lavoratore.

A tale proposito, la norma quadro in materia, ossia l’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l’obbligo di assicurare la salute dei lavoratori, intesa quale integrità psico-fisica, con la massima diligenza possibile. Secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di prevenire, evitare ed eliminare: “situazioni <stressogene> che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, Cass. n. 3291 del 2016)” (Cass. 7844/2018).

Pur nella coscienza di avere a che fare con una fattispecie dai contorni ancora in divenire, giova precisare che la giurisprudenza propenda nel sostenere la configurabilità dello straining anche in assenza della prova compiuta circa la vessatorietà/discriminatorietà delle condotte datoriali ed il preciso intento persecutorio nei confronti del lavoratore, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare in ogni caso situazioni stressogene sul luogo di lavoro (Cass. civ. sez. lav. 4 ottobre 2019, n. 24883).

Professionisti / Il procedimento disciplinare a carico dei geometri

L’azione disciplinare può definirsi come la reazione che l’ordinamento prevede di fronte alla violazione di norme di contenuto deontologico.

La prima questione da affrontare concerne l’individuazione del novero delle violazioni che danno luogo a procedimento disciplinare.

In primis, giova premettere che non esiste un numerus clausus di infrazioni, un elenco tipizzato di comportamenti che consentono l’esercizio del potere disciplinare. È lecito pertanto affermare che i principi, i doveri e le regole previste dal Codice deontologico professionale non costituiscano un’elencazione tassativa.

Se per un verso, infatti, il procedimento disciplinare si pone come necessaria conseguenza della violazione dei precetti di natura deontologica, imposti a ciascun professionista, dall’altro questi precetti e doveri non rinvengono la loro fonte esclusivamente nel codice di deontologia professionale. In buona sostanza, anche comportamenti che non trovano espresso divieto nel codice deontologico possono dar luogo a un procedimento disciplinare.

Ciò trova la sua ratio nel fatto che la deontologia professionale affonda le sue radici nell’etica professionale la quale, a sua volta, trova corrispondenza nel comune sentire.

In altre parole, il sistema dei doveri relativi ad una categoria di professionisti si realizza nel corso del tempo sulla base di regole di natura e contenuto prettamente etici. È l’etica, nel senso di complesso di norme morali e di costume che connotano una professione, a individuare quali comportamenti siano così degradanti da meritare l’esercizio dell’azione disciplinare ed eventualmente l’irrogazione di una sanzione. È proprio il sentire della comunità in un dato momento storico a individuare regole comportamentali e doveri del professionista, integrando e completando le disposizioni codicistiche.

Questo legame tra deontologia ed etica determina inevitabilmente che le regole deontologiche mutino nel corso del tempo, di modo che ciò che costituiva violazione in un pregresso momento storico e contesto sociale potrebbe non esserlo più in epoca successiva.

Alla luce delle considerazioni appena svolte è possibile comprendere il vero scopo dell’azione disciplinare che, lungi dal caratterizzarsi quale mero strumento inquisitorio, assolve la funzione di vera e propria tutela dell’ordine professionale.

Infatti, il fine dell’azione disciplinare è quello di salvaguardare il corretto esercizio della professione nell’ottica dei principi di dignità, onorabilità e correttezza che la informano e la permeano. Principi che, giova rammentarlo, costituiscono in fondo il punto di partenza per l’individuazione delle condotte disciplinarmente rilevanti.

***

La natura “mista” del procedimento disciplinare.

Come si è già avuto modo di vedere nei precedenti approfondimenti, il procedimento disciplinare si conclude con una decisione del Consiglio di Disciplina preposto la quale, a seconda dei casi, può essere rappresentata dall’irrogazione di una sanzione ovvero dall’archiviazione del procedimento.

Può notarsi subito che le due locuzioni lessicali adoperate per individuare i provvedimenti del Consiglio di Disciplina fanno pensare immediatamente agli analoghi provvedimenti del procedimento penale. Di talché la domanda sorge spontanea: questi provvedimenti hanno natura giurisdizionale o amministrativa?

Ebbene, a dispetto del nomen, entrambi hanno natura amministrativa. Invero, l’intero procedimento disciplinare ha natura amministrativa e si conforma alla normativa prevista per l’agire amministrativo.

D’altronde, il quadro normativo di riferimento è costituito innanzitutto dal dettato normativo specificamente dedicato al procedimento disciplinare (R.D. 274/29 e D.P.R. 137/12) ma anche, pacificamente, dalla Legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, in via sussidiaria e in quanto compatibile. Ossia, vige una generale clausola di compatibilità, secondo cui la citata legge sul procedimento amministrativo trova applicazione se non in contrasto con quanto previsto dalla disciplina specifica del procedimento disciplinare.

Ad ogni modo, sebbene non vi siano dubbi circa la natura amministrativa dell’azione disciplinare, essa conserva due caratteri propri dell’attività giurisdizionale.

1) L’obbligatorietà dell’azione.

Carattere tipico dell’attività giurisdizionale è quello dell’obbligatorietà, che comporta il dovere per l’autorità giudiziaria adita di proseguire il giudizio fino all’adozione di un provvedimento decisorio.

In un’ottica sostanzialmente analoga si pone il principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare, seppur con una precisazione. In realtà, l’obbligatorietà dell’azione disciplinare comporta che il Consiglio di Disciplina ha l’obbligo di dare seguito all’azione disciplinare laddove ravvisi:

  • indizi gravi, precisi e concordanti riguardo la commissione di una condotta deontologicamente rilevante
  • la sua attribuibilità ad un soggetto determinato e legittimato.

Sussistendo tali presupposti, il Consiglio non ha potere discrezionale, dovendo disporre, come meglio si vedrà, il cd. rinvio a giudizio disciplinare.

Tuttavia, va ribadito per dovere di chiarezza, l’obbligatorietà concerne esclusivamente l’attivazione del procedimento disciplinare, non incidendo in alcun modo sulla decisione. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare non deve, infatti, essere intesa quale presunzione di responsabilità in capo al destinatario della stessa.

Invero, il Consiglio di Disciplina gode di discrezionalità in ordine all’accertamento dei fatti e della responsabilità del professionista, nonché in merito all’adozione del provvedimento di archiviazione ovvero nel comminare una sanzione.

Pertanto, può concludersi che non sussiste alcun vincolo di interdipendenza necessaria tra l’obbligatorietà dell’azione disciplinare (ossia di promuovere l’azione disciplinare in presenza di una “notitia criminis”) e l’irrogazione della sanzione disciplinare (che rimane eventuale e comminabile solo all’esito dell’intero procedimento).

2) La prescrizione dell’illecito.

Ulteriore carattere dell’azione disciplinare comune a quella giurisdizionale concerne la prescrizione dell’illecito deontologico.

La prescrizione svolge la funzione di tutelare il professionista, ponendo un limite temporale all’esercizio dell’azione disciplinare.

Infatti, in mancanza, si verserebbe nell’assurdo per cui il singolo professionista che ha commesso un illecito deontologico avrebbe sulla testa la spada di Damocle dell’avvio di un procedimento disciplinare nei suoi confronti sine die, ossia fino alla fine del suo excursus professionale.

Un simile paradosso è di certo incompatibile con le garanzie che informano l’attività amministrativa e nella specie la tipizzazione di un procedimento disciplinare.

Pertanto, sebbene, l’art. 12 del R.D. 274/29 nulla preveda in ordine alla prescrizione, si ritiene estendibile al procedimento disciplinare il termine di cinque anni decorrente dalla commissione del fatto. Il termine di prescrizione quinquennale è, difatti, previsto specificamente in relazione ad altre professioni e non vi sono ostacoli alla sua applicazione analogica anche alla professione del Geometra.

***

Ambito soggettivo ed oggettivo dell’azione disciplinare.

Prima di procedere all’esame del procedimento disciplinare e delle sue varie fasi (su cui ci soffermeremo compiutamente nel prossimo contributo), occorre delimitare l’ambito soggettivo ed oggettivo dell’azione disciplinare, enucleando i presupposti della stessa.

Ambito soggettivo (geometra iscritto all’Albo vs. Consiglio di disciplina).

  1. Legittimazione passiva. Destinatari dell’azione disciplinare sono ad ogni evidenza i geometri professionisti.

Requisito per la sottoposizione al procedimento disciplinare è dunque l’iscrizione all’albo professionale. Infatti, legittimati passivi dell’azione disciplinare sono i soggetti iscritti all’albo professionale dei Geometri.

  1. Legittimazione attiva. Viceversa, legittimato attivo all’esercizio dell’azione disciplinare è il Consiglio di disciplina del Collegio di appartenenza del professionista.

Pertanto, la competenza dal punto di vista territoriale ad azionare il procedimento disciplinare è fondata su un criterio formalistico, consistente nell’ambito territoriale di iscrizione del Geometra al singolo Collegio territoriale. Semplificando, eserciterà l’azione disciplinare il Consiglio territoriale nel cui albo il professionista è iscritto, non necessariamente coincidente con quello in cui il geometra opera e, quindi, in cui l’illecito disciplinare è stato realizzato.

Come premesso, il Consiglio di disciplina è competente ad avviare l’azione disciplinare. Tuttavia, non è automatico che sia anche competente a pronunciarsi sulla stessa azione. Nel senso che, il D.P.R. 137/12 ha istituito presso ogni Consiglio di disciplina dei Collegi territoriali preposti ad istruire i procedimenti disciplinari e ad assumerne le relative decisioni.

Dal punto di vista organico, dunque, il Consiglio di disciplina può essere unico, composto esclusivamente da tre Consiglieri ovvero suddiviso in Collegi. Tale eventualità viene in rilievo laddove i Consigli di disciplina siano composti da più di tre componenti. In questi casi, vengono costituiti più Collegi tri-personali.

Dunque, da una parte il Consiglio di disciplina avvia un’azione disciplinare, dall’altra designa al suo interno il Collegio giudicante. La distinzione trova fondamento nella diversa funzione svolta dagli organi: il Consiglio è preposto all’attività preliminare-istruttoria, per individuare le condotte rilevanti dal punto di vista disciplinare; il Collegio, quale organo in concreto giudicante, subentra nella fase eventuale e successiva del rinvio a giudizio.

Ambito oggettivo: la condotta tipica ed atipica.

Dal punto di vista oggettivo, atteso quanto già anticipato in tema di atipicità dell’illecito, vale porre in rilievo che sono suscettibili di sanzione non soltanto i comportamenti tenuti dal professionista nell’esercizio della professione, bensì anche le condotte estrinsecatesi al di fuori di essa, laddove siano suscettibili di recare pregiudizio alla categoria professionale.

Nello specifico, l’art. 11 del R.D. n.  274/29 prevede che le sanzioni disciplinari sono applicabili a fronte di violazioni commesse dal professionista “nell’esercizio della professione”.

Dalla lettera della legge sembrerebbe l’irrogazione delle sanzioni sia racchiusa nell’alveo dei comportamenti tenuti durante l’esercizio della professione in occasione della stessa.

Tuttavia, la giurisprudenza ha teso ad ampliare il novero delle condotte suscettibili di indagine e sanzione, valorizzando il criterio dell’atipicità. Secondo tale impostazione, sono idonee a dare avvio al procedimento disciplinare anche condotte che sia siano verificate in ambiti diversi da quello professionale.

Per comprendere la ragione di ciò, vale richiamare quanto già specificato in ordine allo scopo dell’azione disciplinare. Il principio della tutela della dignità ed onorabilità della professione determina che il professionista sia sanzionabile anche laddove, al di fuori della sua attività professionale, il suo operato si rifletta negativamente sulla intera categoria, sul decoro e la reputazione della collettività professionale a cui si appartiene.

Sulla questione, la Giurisprudenza ha posto l’accento sull’offensività al decoro della professione dei comportamenti posti in essere. In tal modo, le condotte rilevanti ai fini dell’avvio della procedura disciplinare, non soltanto, sono svincolate dalla mera violazione di prescrizioni di legge civile o penale, ovvero dalle disposizioni previste dal codice deontologico, ma possono comprendere ulteriori comportamenti che, seppur non strettamente inerenti con l’esercizio della professione, si riflettano negativamente sulla stessa.

Lavoro e previdenza / La conservazione dei diritti dei lavoratori nel trasferimento d’azienda

L’art. 2112 c.c. introduce la disciplina del trasferimento d’azienda sancendo un principio cardine: “In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.

Lo scopo della disposizione è tutelare i rapporti di lavoro in essere con il soggetto cedente al momento del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, proteggendo il lavoratore dalle modificazioni soggettive della parte datoriale. Conseguenza immediata di questa tutela è che i rapporti di lavoro proseguono senza soluzione di continuità in capo alla nuova datrice di lavoro, ossia l’impresa cessionaria.

L’effetto quindi che si produce, alla luce della norma richiamata, non è unico, in quanto essa garantisce -oltre alla continuazione del rapporto di lavoro – anche la conservazione dei diritti che vi sono connessi.

Al riguardo, la dottrina ha ritenuto sussistere una successione del complesso delle posizioni giuridiche, attive e passive, che qualificano il rapporto di lavoro.

Pertanto, muovendo da tale assunto, i lavoratori avrebbero diritto al mantenimento globale del trattamento giuridico e retributivo già fruito alle dipendenze della impresa cedente.

Tuttavia, in concreto, quanto all’individuazione dei diritti che permangono inalterati a seguito della cessione d’azienda o di ramo d’azienda,  vale rilevare che la locuzione utilizzata dall’art. 2112 è ampia e tendenzialmente omnicomprensiva, riferendosi genericamente a “tutti i diritti” che derivino dal rapporto di lavoro.

Nello specifico, la Corte di Cassazione (cfr. sent. n. 19681/2003), alla luce del quadro normativo risultante dal disposto dell’art. 2112 c.c. e dalla Direttiva 77/187/CEE, ha individuato un nucleo di diritti che il lavoratore indubbiamente conserva al momento del passaggio alle dipendenze del cessionario: i cd. diritti quesiti. Si tratta di tutti quei diritti già maturati dal lavoratore al momento del trasferimento, oramai facenti parte della sua sfera patrimoniale.

 

Per effetto del trasferimento d’azienda, dunque, il lavoratore mantiene inalterati i diritti che trovano il loro fondamento e riconoscimento sia nel contratto individuale di lavoro sia nella legge, essendo questi ultimi conservati a prescindere dai mutamenti soggettivi del datore di lavoro. Per cui, inalterata la normativa di riferimento, il mutare del datore di lavoro dal punto di vista soggettivo non interferisce sulla maturazione dei diritti del lavoratore.

A titolo esemplificativo, i lavoratori ceduti non possono vedersi alterare o comprimere il diritto a svolgere le medesime mansioni esercitate per la cedente (nei limiti di cui all’art. 2103 c.c.). Lo stesso vale a dirsi quanto al riconoscimento di mansioni superiori, laddove una siffatta attribuzione trovi fonte e regolazione nella legge.

Infatti, entrambe le ipotesi trovano fondamento e disciplina direttamente nella legge che non subisce influenza al mutare del datore di lavoro.

Ancora, da un punto di vista economico, invariato rimane l’eventuale superminimo individuale, laddove disciplinato dal contratto individuale di lavoro. In questo caso, il diritto alla conservazione trova sostegno nella clausola contrattuale volta a disciplinare una singola posizione.

D’altro canto, pochi dubbi si pongono quanto alla conservazione dell’anzianità, alla luce della chiara giurisprudenza di legittimità (paradigmatiche in tal senso Cass. n. 2609/2008 e n. 19564/2006). Si tratterebbe, infatti, di un principio assoluto e non negoziabile, che trova fondamento nell’automatismo del transito del lavoratore dall’una all’altra parte datoriale, prescindendo da una nuova assunzione. Dal punto di visto economico, la giurisprudenza riconosce ai lavoratori il diritto all’applicazione da parte della cessionaria degli scatti di anzianità corrispondenti all’anzianità maturata presso la cedente, laddove appunto sia fornita la prova della sussistenza di un pregresso diritto alla maturazione di scatti di anzianità presso l’impresa cedente (Cass. n. 14208/2013, già in Cass. n. 6428/98).

Civile / Diffamazione a mezzo stampa: risarcibilità del danno non patrimoniale in favore delle persone giuridiche

La divulgazione di notizie lesive dell’onore e della reputazione altrui, oltre a configurare il reato di diffamazione disciplinato all’art. 595 c.p., costituisce un illecito civile ed è pertanto fonte di obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c.

I danni da diffamazione, generalmente, non involgono soltanto la sfera patrimoniale del soggetto danneggiato, ma si estendono a quelle situazioni giuridiche inerenti alla persona, non connotati da valore di scambio, e che sono pacificamente riconducibili nella categoria del danno non patrimoniale,  disciplinato all’art. 2059 c.c.

Nel nostro ordinamento, infatti, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore – costituzionalmente garantito – quale, a titolo esemplificativo, l’identità personale, il nome,  l’immagine e la reputazione.

Ebbene, tali diritti ricevono tutela principalmente con riferimento alle persone fisiche. Tuttavia, non vi è ragion di ritenere che la tutela di cui si discute sia preclusa per le persone giuridiche.

Il codice civile, infatti, disciplina, nel primo libro, sia le persone fisiche (art. 1 ss.) sia le persone giuridiche (art. 11 ss.), come due species di un unico genus, cui vengono riferite le norme dei successivi libri, nei limiti della compatibilità. Ciò porta ad escludere l’applicabilità alle persone giuridiche unicamente di quelle norme che presuppongono una determinata condizione fisica del soggetto (quali, ad esempio, quelle relative al matrimonio, alla filiazione ed ai rapporti di diritto familiare in genere).

Pertanto, anche le persone giuridiche possono godere di quelle forme di protezione che discendono direttamente dal dettato costituzionale ed in modo particolare dalla previsione generale dell’art. 2 Cost. che tutela le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.

Sul punto, si richiama il granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale il danno non patrimoniale all’immagine ed alla reputazione si può configurare anche nei confronti della persona giuridica quando il fatto lesivo colpisce una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione (Cass., sez. I, n. 12929/2007; Cass., sez. III, n. 29185/2008; Cass., sez. III, n. 20643/2016).

Ebbene, poiché l’immagine della persona giuridica rientra tra tali diritti, può essere risarcito anche il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica nella quale si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che tale riduzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente, e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della riduzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica sovente interagisce.

Quanto alla prova della lesività della condotta e del conseguente verificarsi del danno-conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che essa è raggiunta anche mediante il ricorso a presunzioni, quali, ad esempio la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (ex multis: Cass. civ., sez. 3, 26 ottobre 2017 n. 25420, Cass. civ., sez. 6, 31 marzo 2021 n. 8861).

 

Infine, la quantificazione e liquidazione di tali danni dovrà avvenire in ragione di un criterio equitativo, secondo parametri cristallizzati dal lavoro della giurisprudenza ma che, in ogni caso, dovranno aver riguardo alla coscienza nei responsabili della potenzialità lesiva della pubblicazione della altrui reputazione, alla attribuzione di fatti offensivi determinati e circostanziati, alla diffusione del giornale, alla credibilità di cui gode presso il pubblico, alla collocazione ed evidenza grafica degli articoli stessi, alla gravità dell’addebito, alla suggestione indotta nei lettori.

Lavoro e previdenza / Buste paga ed insinuazione allo stato passivo fallimentare

Il prospetto paga (o cedolino) emesso dal datore di lavoro, se recante firma o sigla o timbro di quest’ultimo, fa piena prova del credito del lavoratore di cui si chiede l’insinuazione al passivo fallimentare.

Di contro, al curatore rimane la facoltà di contestare le risultanze delle buste paga con altri mezzi di prova ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’erroneità, la cui valutazione finale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.

Tutto questo perché il valore probatorio dei prospetti paga discende dal fatto che il contenuto degli stessi è obbligatorio e sanzionato in via amministrativa e, per ciò solo, è sufficiente a provare il credito maturato dal lavoratore.

Tali principi, da ultimo, sono stati ribaditi da Cass. ord. 27 maggio 2022, n. 17312, a conferma di un orientamento pluri-consolidato (cfr. anche Cass. civ., 19 gennaio 2022, n. 1649; Cass. civ. sez. lav., 7 gennaio 2021, n. 74; Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32395).

Nella predetta ord. n. 17312/22 la questione era stata posta da una lavoratrice che aveva presentato istanza di insinuazione al passivo del fallimento del proprio datore di lavoro, chiedendo l’ammissione, in via privilegiata, di crediti di lavoro a titolo di ferie non godute, indennità di mancato preavviso, ratei relativi alle mensilità aggiuntive e di T.F.R. ma che aveva ricevuto il diniego all’ammissione da parte del giudice delegato.

Il problema posto all’attenzione del giudice di legittimità riguardava la prova del credito vantato dal lavoratore dipendente dell’impresa fallita.

Come è noto, in sede di formazione dello stato passivo, le buste paga allegate dal creditore alla propria istanza di insinuazione dimostrano l’esistenza del credito fatto valere.

La Corte di Cassazione ha dato continuità all’indirizzo sopra richiamato ed ha rilevato il valore probatorio dei prospetti paga prodotti in atti dalla lavoratrice, anche in considerazione del fatto che la procedura fallimentare non aveva in alcun modo contestato l’asserita erroneità dei dati in esse contenuti.

Tuttavia, nella prassi è frequente che il creditore non chieda semplicemente l’ammissione al passivo per la mancata corresponsione di spettanze retributive attestate dai cedolini paga, ma anche il riconoscimento di differenze retributive derivanti da altre rivendicazioni, come può essere l’adibizione a mansioni superiori. In detta ipotesi, poiché l’istanza proposta non troverà accoglimento per difetto degli elementi costitutivi del credito fatto valere, lo strumento per ottenere il riconoscimento della domanda proposta da parte del lavoratore romane quello dell’opposizione allo stato passivo.

Giova precisare che una simile procedura si configura come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione in cui trovano applicazione le regole generali in tema di onere della prova. Per l’effetto, l’opponente sarà tenuto a fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto di credito; all’opposto, sulla curatela graverà l’onere di dimostrare l’esistenza di fatti modificativi, impeditivi o estintivi dell’obbligazione (Cass. civ. sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5847).

Pertanto, con riguardo alle differenze retributive rivendicate, sarà onere del lavoratore provare in maniera certa ed inequivoca l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società fallita e lo svolgimento del suddetto rapporto secondo le modalità dedotte. La prova della prestazione lavorativa in concreto effettuata, della sua durata, nonché dell’effettivo impegno in termini di giorni e di ore non potrà essere fornita mediante la produzione delle buste paga, dal momento che le voci retributive richieste saranno ulteriori o diverse rispetto a quelle in esse indicate. Se questo è vero, ne deriva che l’onere probatorio può essere assolto mediante prova testimoniale o documentale (diversa dai prospetti paga), sempre che queste offrano elementi certi in ordine alla sussistenza dei fatti posti dall’opponente a fondamento della domanda. Naturalmente, il mancato raggiungimento della prova comporterà inevitabilmente il rigetto della domanda proposta.

Lavoro e previdenza / Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e incentivazione all’esodo

La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è per lo più associata all’erogazione di emolumenti da parte del datore di lavoro finalizzata ad acquisire il consenso del lavoratore alla rinuncia della prosecuzione del rapporto di lavoro.
Infatti, il datore di lavoro sovente favorisce l’uscita dei dipendenti attraverso l’erogazione di importi a titolo di incentivo all’esodo.
Con riguardo all’entità della proposta economica incentivante, l’impresa datrice di lavoro ha libertà di azione e non è vincolata da legge o contrattazione collettiva.

Tuttavia, sarà buona norma adottare parametri che garantiscano un trattamento quantomeno equo tra i lavoratori, orientando, quindi, la contrattazione individuale lungo direttive che consentano di entrare nell’ottica del lavoratore per proporgli un bilanciamento tra quanto perde e come viene ristorato economicamente.
Un orientamento prudente suggerisce alla parte datoriale che l’ammontare minimo dell’incentivazione all’esodo possa essere individuato in un importo pari almeno all’indennità sostitutiva del preavviso per licenziamento prevista dal contratto collettivo.

Mentre, il criterio generalmente utilizzato al fine di valutare l’importo massimo dell’offerta è il rischio economico conseguente ad un’eventuale soccombenza nel giudizio instaurato per l’accertamento della legittimità in caso di licenziamento per motivo economico. Il cd. “rischio causa”, incrementato dell’indennità sostitutiva del preavviso, costituisce una valida esemplificazione del massimo che il lavoratore potrebbe ottenere qualora non  volesse in alcun modo raggiungere l’accordo.

Con particolare riferimento alle risoluzioni consensuali della categoria dei dirigenti, invece, appare necessario prendere in esame la particolare disciplina sanzionatoria prevista dalla loro contrattazione collettiva in caso di licenziamento ingiustificato.

A tutto questo si aggiungano come fattori da considerare come possibili rischi di causa i costi connessi ad un possibile licenziamento del lavoratore (contribuzione INPS su tale indennità sostitutiva del preavviso, ticket di licenziamento, spese legali, ecc.).
Infatti, conoscere le conseguenze economiche complessive di un licenziamento illegittimo può essere utile per stimare il possibile risparmio per l’azienda nel giungere ad un accordo di risoluzione consensuale e di conseguenza fissare criteri (anzianità, carichi familiari, prossimità alla pensione) di determinazione degli incentivi all’esodo.

Una volta identificato e concordato con il lavoratore l’ammontare offerto per la risoluzione consensuale, di prassi viene redatto un accordo, volto a rendere definitiva l’intesa, nel quale vengono inserite specifiche clausole finalizzate a mettere al riparo il datore di lavoro da possibili rivendicazioni connesse al rapporto di lavoro in fase conclusionale.

Nello specifico, mediante tali clausole, il lavoratore rinuncia ad ogni suo diritto, pretesa ed azione legale in ordine al pregresso rapporto di lavoro ab origine, alla sua esecuzione ed alla risoluzione del medesimo a fronte dell’erogazione di un importo a titolo transattivo.

Si rammenta che l’istituto della rinuncia costituisce una dichiarazione di volontà con la quale una parte dismette abdicativamente un proprio diritto, scegliendo di non goderne più. La rinuncia farà riferimento ad uno specifico oggetto e deve contenere la chiara rappresentazione dei diritti che vengono dismessi: se riferita ad ogni imprecisato diritto maturato nel corso del rapporto di lavoro, così come la rinuncia preventiva a futuri, eventuali e non precisati diritti, sarà radicalmente nulla. Invece, mediante la transazione, le parti facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già iniziata o prevengono una lite che potrebbe insorgere tra di loro.

L’accordo così perfezionato, infine, è soggetto all’obbligo di formalizzazione in una cd. sede protetta: infatti, le rinunce e/o le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide, salvo nei casi in cui siano contenute nei verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale, giudiziale o avanti la commissione di conciliazione istituita presso l’Ispettorato del lavoro o presso le sedi di certificazione.

In generale, si può affermare che le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro nonché quelle la cui erogazione trae origine proprio dalla predetta cessazione, fatta salva l’indennità sostitutiva del preavviso, tendenzialmente sono esenti da contribuzione.

Rientrano in tale fattispecie anche le somme erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, in eccedenza alle normali competenze comunque spettanti ed aventi lo scopo di indurre il lavoratore ad anticipare la risoluzione rispetto alla sua normale scadenza.

Una simile previsione, finalizzata ad evitare effetti distorsivi sulla base imponibile e pensionabile, ricomprende tutte quelle forme di erogazione prive di uno specifico titolo retributivo, corrisposte in sede di risoluzione del rapporto e la cui funzione, desumibile dalla volontà delle parti, sia riconducibile a quella di agevolare lo scioglimento del rapporto.

Al contrario, le somme corrisposte a titolo transattivo o di rinuncia ad alcuni diritti, trovando la propria causa nel rapporto di lavoro e non essendo ricomprese tra le fattispecie di esclusione, sono soggette anche a contribuzione previdenziale.

Occorre, infatti, tener conto sia del principio secondo il quale tutto ciò che il lavoratore riceve, in natura o in denaro, dal datore di lavoro in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro rientra nell’ampio concetto di “retribuzione imponibile” ai fini contributivi sia della assoluta indisponibilità, da parte dell’autonomia privata, dei profili contributivi che l’ordinamento collega al rapporto di lavoro.

Infine, si ritenga che, dal punto di vista fiscale, dovrà essere assoggettato a tassazione separata, con l’aliquota del TFR, sia l’incentivo all’esodo in quanto costituisce una somma percepita da parte del lavoratore una tantum in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro dipendente, sia gli importi transattivi erogati in sede di risoluzione consensuale.

Lavoro / Ammortizzatori sociali e costi “occulti” per le aziende

Nell’attuale crisi sanitaria, economica e sociale, lo strumento delle integrazioni al reddito si è rivelato un mezzo necessario per sostenere le imprese, da un lato, e, dall’altro, per puntellare il reddito dei lavoratori dipendenti che si sono trovati nell’impossibilità di rendere la prestazione lavorativa per via delle restrizioni dovute alle disposizioni per il contenimento della pandemia.

Gli ammortizzatori sociali sono stati utilizzati, inoltre, come mezzo di compensazione del “blocco” dei licenziamenti imposto dallo Stato che, per ragione di tenuta sociale, ha fortemente limitato la libera iniziativa imprenditoriale.

L’intento del Governo è stato quindi quello di eliminare (melius, attutire) per le aziende il “costo del lavoro”.

Se da un lato possiamo dire che la volontà del Legislatore ha colto nel segno (le aziende non sostengono il costo della retribuzione ordinaria e della relativa contribuzione), da un altro lato non si tiene conto dei cd. costi “occulti” che rimangono comunque in capo al datore di lavoro.

La gestione emergenziale ha sicuramente snellito le procedure ed eliminato, almeno in parte, alcuni oneri che il datore di lavoro doveva sopportare in caso di utilizzo di ammortizzatore sociali “ordinari”.

Infatti, nel nostro ordinamento esistono numerosi ammortizzatori sociali cd. ordinari, utilizzati anche nel periodo emergenziale (CIGO – AO FIS – AO Fondi Bilaterali, FSBA, CISOA, CIGD), con regole e oneri diversi.

Esaminiamo brevemente tali costi, assumendo come esempio l’utilizzo della CIGO (cassa integrazione guadagni ordinaria), ossia l’ammortizzatore sociale principale e più utilizzato sia in forma “ordinaria” che “emergenziale”.

Il costo più rilevante sostenuto dalle imprese è il costo del finanziamento della CIGO. Infatti, tutte le imprese rientranti nel settore industria sono tenute al pagamento di un importo mensile calcolato sulla retribuzione imponibile dei dipendenti, che ha il preciso scopo di finanziare la gestione della cassa integrazione al di là dell’effettivo utilizzo.

La cassa integrazione ordinaria erogata per lo stato emergenziale, proprio per la sua particolarità, non viene alimentata da questo fondo, bensì direttamente da fondi dello Stato.

Per l’effetto, si può riconoscere come in questo caso, l’accesso all’ammortizzatore sociale non abbia attinto fondi dai versamenti contributivi delle aziende e, pertanto, non abbia costituito un onere per le stesse.

Nel caso di utilizzo degli ammortizzatori sociali, al costo del finanziamento si vanno ad aggiungere altri costi in parte contributivi ed in parte retributivi. Infatti, con la riforma degli ammortizzatori sociali ex D.Lgs 148/2015, è stato previsto un contributo aggiuntivo in caso di utilizzo da parte delle aziende di ore di cassa integrazione ordinaria.

La misura del contributo aggiuntivo è pari al 9% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate per un limite complessivo di 52 settimane. L’aliquota aumenta fino al 12% per gli interventi oltre le 52 settimane nel quinquennio mobile ed al 15% oltre le 104 settimane nel quinquennio mobile.

Tale contributo non è dovuto nel caso di eventi oggettivamente non evitabili, ovverosia casi fortuiti, improvvisi, non prevedibili e non rientranti nel rischio di impresa, dalle imprese sottoposte a procedure concorsuali e dalle imprese che ricorrono ai trattamenti ex art. 7 DL 148/1993. Allo stesso modo, nelle prime settimane di intervento di cassa integrazione per Covid-19, non è stato previsto alcun onere previdenziale aggiuntivo per le imprese fruitrici.

Viceversa, nelle successive ulteriori settimane concesse – dal decreto Agosto in poi- viene richiesto alle imprese che sospendono o riducono l’attività un contributo aggiuntivo correlato all’entità della perdita di fatturato registrata. In questo modo, il Governo ha cercato di finanziare parte dell’intervento, altrimenti a totale carico dello Stato, senza gravare sulle aziende maggiormente colpite dalla crisi.

L’introduzione del contributo aggiuntivo ha anche l’effetto di deflazionare l’eventuale utilizzo “improprio” della cassa integrazione. Per la stessa motivazione è stato previsto un bonus contributivo per quelle aziende che, nella seconda metà dell’anno, non ricorrano ad ammortizzatori sociali. Tale bonus risulta, come noto, essere correlato all’entità della sospensione dal lavoro registrata tra maggio e giugno 2020 dalla medesima azienda.

Non solo. Anche durante la sospensione coperta da CIGO emergenziale l’azienda deve sostenere alcuni costi che spesso risultano “occulti” per l’imprenditore. In questi casi, ai sensi dell’articolo 2120, co. 3 Codice Civile, continua a computarsi interamente il trattamento di fine rapporto“… in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro”.

Il lavoratore pertanto, anche durante l’assenza, matura per intero la quota di TFR come se non ci fosse stata alcuna sospensione o riduzione.

Oltre alla maturazione del trattamento di fine rapporto, bisogna considerare anche altri elementi che continuano la loro maturazione ordinaria quali: anzianità di servizio, scatti di anzianità, periodo di comporto.

Diverso discorso va fatto per i ratei delle mensilità aggiuntive e delle ferie. In via ordinaria, si avrà piena maturazione degli stessi ratei qualora la sospensione non sia stata maggiore di 15 giorni. Bisogna fare attenzione alla circostanza che la contrattazione collettiva nazionale, ma anche territoriale, può definire criteri di maturazione diversi e che gli accordi sindacali, eventualmente definiti in azienda per l’accesso agli ammortizzatori, possono prevedere comunque condizioni di miglior favore per il lavoratore.

In conclusione, anche le imprese che hanno le attività sospese e ricorrono alla CIGO con causale Covid-19 non azzerano totalmente il costo del lavoro.