Lavoro / Ammortizzatori sociali e costi “occulti” per le aziende

Nell’attuale crisi sanitaria, economica e sociale, lo strumento delle integrazioni al reddito si è rivelato un mezzo necessario per sostenere le imprese, da un lato, e, dall’altro, per puntellare il reddito dei lavoratori dipendenti che si sono trovati nell’impossibilità di rendere la prestazione lavorativa per via delle restrizioni dovute alle disposizioni per il contenimento della pandemia.

Gli ammortizzatori sociali sono stati utilizzati, inoltre, come mezzo di compensazione del “blocco” dei licenziamenti imposto dallo Stato che, per ragione di tenuta sociale, ha fortemente limitato la libera iniziativa imprenditoriale.

L’intento del Governo è stato quindi quello di eliminare (melius, attutire) per le aziende il “costo del lavoro”.

Se da un lato possiamo dire che la volontà del Legislatore ha colto nel segno (le aziende non sostengono il costo della retribuzione ordinaria e della relativa contribuzione), da un altro lato non si tiene conto dei cd. costi “occulti” che rimangono comunque in capo al datore di lavoro.

La gestione emergenziale ha sicuramente snellito le procedure ed eliminato, almeno in parte, alcuni oneri che il datore di lavoro doveva sopportare in caso di utilizzo di ammortizzatore sociali “ordinari”.

Infatti, nel nostro ordinamento esistono numerosi ammortizzatori sociali cd. ordinari, utilizzati anche nel periodo emergenziale (CIGO – AO FIS – AO Fondi Bilaterali, FSBA, CISOA, CIGD), con regole e oneri diversi.

Esaminiamo brevemente tali costi, assumendo come esempio l’utilizzo della CIGO (cassa integrazione guadagni ordinaria), ossia l’ammortizzatore sociale principale e più utilizzato sia in forma “ordinaria” che “emergenziale”.

Il costo più rilevante sostenuto dalle imprese è il costo del finanziamento della CIGO. Infatti, tutte le imprese rientranti nel settore industria sono tenute al pagamento di un importo mensile calcolato sulla retribuzione imponibile dei dipendenti, che ha il preciso scopo di finanziare la gestione della cassa integrazione al di là dell’effettivo utilizzo.

La cassa integrazione ordinaria erogata per lo stato emergenziale, proprio per la sua particolarità, non viene alimentata da questo fondo, bensì direttamente da fondi dello Stato.

Per l’effetto, si può riconoscere come in questo caso, l’accesso all’ammortizzatore sociale non abbia attinto fondi dai versamenti contributivi delle aziende e, pertanto, non abbia costituito un onere per le stesse.

Nel caso di utilizzo degli ammortizzatori sociali, al costo del finanziamento si vanno ad aggiungere altri costi in parte contributivi ed in parte retributivi. Infatti, con la riforma degli ammortizzatori sociali ex D.Lgs 148/2015, è stato previsto un contributo aggiuntivo in caso di utilizzo da parte delle aziende di ore di cassa integrazione ordinaria.

La misura del contributo aggiuntivo è pari al 9% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate per un limite complessivo di 52 settimane. L’aliquota aumenta fino al 12% per gli interventi oltre le 52 settimane nel quinquennio mobile ed al 15% oltre le 104 settimane nel quinquennio mobile.

Tale contributo non è dovuto nel caso di eventi oggettivamente non evitabili, ovverosia casi fortuiti, improvvisi, non prevedibili e non rientranti nel rischio di impresa, dalle imprese sottoposte a procedure concorsuali e dalle imprese che ricorrono ai trattamenti ex art. 7 DL 148/1993. Allo stesso modo, nelle prime settimane di intervento di cassa integrazione per Covid-19, non è stato previsto alcun onere previdenziale aggiuntivo per le imprese fruitrici.

Viceversa, nelle successive ulteriori settimane concesse – dal decreto Agosto in poi- viene richiesto alle imprese che sospendono o riducono l’attività un contributo aggiuntivo correlato all’entità della perdita di fatturato registrata. In questo modo, il Governo ha cercato di finanziare parte dell’intervento, altrimenti a totale carico dello Stato, senza gravare sulle aziende maggiormente colpite dalla crisi.

L’introduzione del contributo aggiuntivo ha anche l’effetto di deflazionare l’eventuale utilizzo “improprio” della cassa integrazione. Per la stessa motivazione è stato previsto un bonus contributivo per quelle aziende che, nella seconda metà dell’anno, non ricorrano ad ammortizzatori sociali. Tale bonus risulta, come noto, essere correlato all’entità della sospensione dal lavoro registrata tra maggio e giugno 2020 dalla medesima azienda.

Non solo. Anche durante la sospensione coperta da CIGO emergenziale l’azienda deve sostenere alcuni costi che spesso risultano “occulti” per l’imprenditore. In questi casi, ai sensi dell’articolo 2120, co. 3 Codice Civile, continua a computarsi interamente il trattamento di fine rapporto“… in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro”.

Il lavoratore pertanto, anche durante l’assenza, matura per intero la quota di TFR come se non ci fosse stata alcuna sospensione o riduzione.

Oltre alla maturazione del trattamento di fine rapporto, bisogna considerare anche altri elementi che continuano la loro maturazione ordinaria quali: anzianità di servizio, scatti di anzianità, periodo di comporto.

Diverso discorso va fatto per i ratei delle mensilità aggiuntive e delle ferie. In via ordinaria, si avrà piena maturazione degli stessi ratei qualora la sospensione non sia stata maggiore di 15 giorni. Bisogna fare attenzione alla circostanza che la contrattazione collettiva nazionale, ma anche territoriale, può definire criteri di maturazione diversi e che gli accordi sindacali, eventualmente definiti in azienda per l’accesso agli ammortizzatori, possono prevedere comunque condizioni di miglior favore per il lavoratore.

In conclusione, anche le imprese che hanno le attività sospese e ricorrono alla CIGO con causale Covid-19 non azzerano totalmente il costo del lavoro.

 

 

 

 

Lavoro / Licenziamento vietato nel periodo di emergenza sanitaria per l’epidemia Covid-19: nullità del recesso e reintegra in servizio

I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (o quelli collettivi) intimati durante il divieto di licenziamento in vigore dal 17 marzo 2020 sono nulli ex art. 1418 c.c. per contrarietà a una norma imperativa. Ciò considerato,  il lavoratore licenziato per motivi economici nel periodo di vigenza del blocco potrà richiedere, oltre alla reintegrazione in servizio, il risarcimento del danno dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, con il minimo di cinque mensilità (art.18, comma 1, della legge 300/1970; art. 2 del D.lgs. 23/2015).

Sulle conseguenze sanzionatorie, in caso di violazione del divieto, si è espressa la giurisprudenza di merito, come il Tribunale di Mantova l’11 novembre 2020, dichiarando la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in violazione dell’espresso divieto introdotto dai decreti legge nn. 18/2020, 34/2020, 104/2020 e 137/2020 per fronteggiare l’emergenza Covid-19. Detto Tribunale ha sottolineato che il divieto di licenziamento nel corso dell’emergenza sanitaria è una tutela temporanea della stabilità dei rapporti, atta a salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico, aggiungendo che si tratta di una misura collegata a esigenze di ordine pubblico. Pertanto, il Tribunale mantovano ha concluso che il recesso in questione è affetto da radicale nullità, con conseguente applicabilità della tutela reale “piena” prevista dall’art. 18, comma 1, St. lav. e dall’art. 2, d.lgs. n. 23/2015.

Non solo. E’ inoltre nullo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la cui comunicazione scritta, spedita prima dell’inizio del blocco (17 marzo 2020), sia stata ricevuta successivamente all’entrata in vigore dell’art. 46 del Dl 18/2020. In questa ipotesi, la ratio della nullità discende dal principio generale per cui il licenziamento è un atto recettizio che, in base all’art. 1334 c.c.  produce effetto nel momento in cui arriva a conoscenza del soggetto al quale è destinato (Tribunale di Milano, 28 gennaio 2021).

Ancora il Tribunale di Milano ha dichiarato nullo altro licenziamento, questa volta intimato per mancato superamento del periodo di prova durante il divieto. In questo caso, infatti, non solo il patto di prova apposto al contratto era stato dichiarato nullo, ma emergeva contestualmente un collegamento tra il licenziamento intimato e la congiuntura economica negativa legata all’emergenza Covid-19 (Tribunale di Milano, 21 gennaio 2021).

Non meno interessante è la sentenza del Tribunale di Ravenna che, nel qualificare come oggettivo il licenziamento del lavoratore per inidoneità alla mansione, ha accertato la nullità del recesso intimato in costanza di divieto in base all’art. 1418 c.c., condannando la società resistente a reintegrare il lavoratore e al pagamento a titolo di risarcimento del danno ex art. 2 del D.lgs. 23/2015, trattandosi di un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 (Tribunale di Ravenna, 7 gennaio 2021).

Fermi restando i singoli casi trattati, la giurisprudenza di merito che si è occupata delle conseguenze del , il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel periodo di emergenza sanitaria per l’epidemia Covid-19, sembra concorde nel valutare il licenziamento in questione come nullo, perché contrario alle norme imperative previste dall’art. 1418 c.c. La nullità determinerà l’applicazione delle conseguenze sanzionatorie che ne derivano, ossia la reintegrazione in servizio, nei confronti di tutti i datori di lavoro, a prescindere dalla dimensione dell’azienda.

La deontologia del geometra nello svolgimento del suo incarico

Con il Titolo III (Della prestazione), che si compone di cinque sezioni dedicate a tutti gli aspetti che regolano lo svolgimento dell’incarico del geometra libero professionista, viene analizzata e regolamentata principalmente la condotta che il professionista deve porre in essere sia nei confronti del committente, sia nei confronti di soggetti esterni, come uffici, enti e istituzioni con i quali entra in contatto e si relaziona.

La prima sezione del Titolo III è dedicata all’“incarico” e analizza il tipo di rapporto che viene concluso fra il professionista ed il suo committente.

Con l’art. 18 il Codice pone alla base del rapporto professionale tra geometra e cliente, che dev’essere anzitutto personale e fiduciario, principi di trasparenza ed onestà. Il geometra – rammenta la norma – conclude con il committente una prestazione d’opera intellettuale.

Si prosegue con il principio di libera scelta del committente in relazione all’attribuzione dell’incarico da affidare al geometra e con il dovere di astensione di quest’ultimo da qualsiasi comportamento volto ad influire su tale facoltà del committente (art. 19).

Connesso al principio di libera scelta del committente è il principio della libera determinazione del compenso tra le parti, che tuttavia deve avvenire nel rispetto di un criterio di adeguatezza dell’onorario all’importanza dell’opera commissionata (art. 20). Tale canone deontologico è tra i più rilevanti e delicati di quelli che regolano i rapporti professionista-committente: esso, infatti, se da un lato assicura e garantisce la massima libertà alle parti del rapporto contrattuale nella individuazione della misura del compenso del professionista (e per l’effetto anche la facoltà del committente di richiedere una “scontistica” di suo comodo), dall’altro impone all’iscritto di non accettare il “gioco al ribasso” che la committenza (specie se contrattualmente più solida) spesso esercita ed, anzi, di esigere un accordo economico che rispetti la dignità del prestatore d’opera intellettuale e la rilevanza del servizio reso.

Tra i fondamentali principi che informano lo svolgimento dell’incarico, vi è soprattutto quello della fiducia. Esso è fondato sugli obblighi di buona fede, correttezza, lealtà, trasparenza e veridicità della comunicazione del professionista verso il suo assistito. L’eventuale scelta del geometra di avvalersi di collaboratori o dipendenti non farà mai venire meno la connotazione personale caratterizzante la sua prestazione professionale (art. 21). L’ultimo comma dell’articolo dovrebbe essere pleonastico ma, poiché presente, di tutta evidenza si deve ritenere che esso abbia una giustificazione ed uno scopo. Infatti, detto precetto impone l’assoluto divieto, in capo al geometra, di avvalersi di collaboratori che esercitino la professione in maniera abusiva. Pare un eccesso di zelo la formulazione di una simile raccomandazione ma v’è da pensare che il legislatore del Codice deontologico abbia avuto fondati motivi per inserirla. Per cui, è bene rammentare a tutti che la fattispecie è pacificamente vietata e quindi deontologicamente sanzionabile.

Si prosegue con un canone di massima rilevanza e responsabilizzazione degli iscritti, che potremmo definire di onestà intellettuale. Ossia, quello che prevede l’obbligo per il professionista di riconoscere il perimetro delle proprie competenze ed, in caso di difetto di una competenza adeguata, di declinare gli incarichi in materie ed argomenti non di sua sufficiente conoscenza. In ogni caso, si prevede che il geometra, ad incarico accettato, in caso di sopravvenuta difficoltà d’esecuzione, ha il diritto ed il dovere di approfondire la sua formazione nonché di chiedere la “supervisione agli organi di categoria” competenti. La stessa norma, infine, prescrive il divieto per il professionista di farsi condizionare, nello svolgimento dell’incarico, da sollecitazioni o interessi personali di soggetti esterni volti a ridurre o annullare il contenuto intellettuale della prestazione per favorire l’economicità della stessa (art. 22).

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Nella seconda sezione, rubricata “dello svolgimento e formazione continua”, con l’art. 23 il Codice prescrive per il professionista due ulteriori obblighi:

  1. a) di osservanza dello standard di qualità sancito dal Consiglio Nazionale da osservare durante l’esecuzione della prestazione;
  2. b) di continuo aggiornamento della propria preparazione professionale, attraverso attività di informazione e formazione, così come previste dal Consiglio Nazionale.

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Nella terza sezione, l’art. 24 istituisce per il geometra anche il canone dell’obbligo di osservanza del segreto professionale. Difatti, il geometra ha il dovere di non divulgare le informazioni acquisite durante l’assolvimento del mandato professionale ed in funzione di questo. In particolare, tale riservatezza deve essere rigorosamente mantenuta sia durante lo svolgimento dell’incarico, sia nella fase successiva al suo compimento.

Lo stesso articolo, poi, estende il dovere di riservatezza anche ai collaboratori, ai praticanti ed ai dipendenti del professionista, il quale è tenuto ad adottare ogni misura necessaria a conseguire tal fine e, in caso di violazione di tale obbligo, rimane personalmente garante e responsabile verso il suo cliente.

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Nella quarta sezione, all’art. 25, il Codice regolamenta il rapporto del professionista con soggetti esterni, terzi rispetto al rapporto con la committenza. Alla base delle succitate relazioni, che si instaurano con Uffici Pubblici e Istituzioni, vigono il principio di indipendenza e quello di rispetto delle relative funzioni ed attribuzioni.

In particolare, vengono in considerazione i seguenti precetti:

  1. a) rispettare le funzioni alle quali sono adibite le persone fisiche con cui si entra in contatto;
  2. b) astenersi dall’utilizzare in modo interessato la collaborazione dei dipendenti delle PP.AA. ed evitare di trarre vantaggio dai rapporti personali instaurati con i medesimi.

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Infine, la quinta sezione disciplina i rapporti con i committenti.

La norma di cui all’art. 26 del Codice si apre con un precetto di carattere generale, che appare un invito al professionista a mantenere sempre una informazione ampia e dettagliata verso il proprio cliente, senza reticenze, resistenze o artifizi. Potremmo definirlo un obbligo di massima trasparenza.

Nello specifico, si precisano i seguenti doveri:

  1. a) concordare e precisare l’oggetto dell’incarico ed i limiti della prestazione pattuita;
  2. b) in caso di più parti coinvolte, informare i committenti sull’eventuale sopravvenuta sussistenza di interessi contrapposti o concomitanti che possano influire sul consenso alla prosecuzione dell’incarico stesso;
  3. c) non eccedere nella gestione degli interessi rispetto ai limiti dell’incarico ricevuto;

d) astenersi dall’assumere un incarico professionale che possa essere in contrasto con le risultanze di una prestazione già svolta, anche al fine di evitare di provocare un danno al precedente committente.

News / “Decreto Ristori”: cambia la norma, rimane il blocco

Il Decreto Legge n. 137/2020 (cd. Decreto “Ristori”) ha prorogato alcune disposizioni emergenziali in materia di lavoro, già previste dal cd. Decreto “Agosto” (convertito in Legge n. 126/2020).
In particolare, il Decreto Ristori ha confermato l’ormai noto divieto di licenziamento fino al 31 gennaio 2021, per tutti i datori di lavoro, a prescindere dall’utilizzo della cassa integrazione o dell’esonero contributivo. La nuova norma, pertanto, supera il precedente meccanismo del cd. “divieto mobile” o “a geometria variabile”, introdotto dal Decreto Agosto, il quale, legando il blocco dei licenziamenti alla disponibilità dell’ammortizzatore o degli sgravi, aveva comportato molteplici dubbi interpretativi ed applicativi. In base alla nuova norma, fino al 31 gennaio 2021, continuerà ad essere vietato:

  • iniziare procedure di licenziamento collettivo (salvo in caso di immediata riassunzione per cambio appalto);
  • recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo “ai sensi dell’art. 3 L. 604/1966” (sono anche sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso ex 7 della medesima Legge).

In conformità a quanto già previsto dal Decreto Agosto, i licenziamenti collettivi e/o individuali per giustificato motivo oggettivo continueranno ad essere consentiti solamente nei seguenti casi:

  • licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività d’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività (in assenza di cessione di un complesso di beni o attività che possa essere qualificato come trasferimento d’azienda o ramo di essa);
  • i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa ovvero ne sia disposta la cessazione;
  • i licenziamenti intimati nei confronti di lavoratori che abbiano aderito ad accordi collettivi aziendali di incentivazione alla risoluzione dei rapporti di lavoro, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. È previsto l’accesso alla NASpI anche qualora tali accordi prevedano la risoluzione consensuale del rapporto.

Viceversa, per quanto concerne i licenziamenti individuali per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, è noto che questi ultimi restino estranei all’ambito di applicazione del divieto.

Alla luce di quanto sopra, con il Decreto Ristori, per consentire le uscite dall’azienda dei lavoratori, residuano solo due ipotesi: o quella volontaria o quella “illegittima”.

Infatti, per tutta la durata del blocco dei licenziamenti, sarà praticabile solo l’ipotesi di stipulare accordi collettivi aziendali che prevedano l’adesione volontaria dei dipendenti a una risoluzione incentivata dei rapporti di lavoro. La nota distintiva di tali accordi, stipulabili solo con i sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale, consiste nel diritto del lavoratore in esubero a ottenere, a fronte della risoluzione consensuale del rapporto, il trattamento di disoccupazione Naspi in deroga alla normativa vigente.

L’altra “alternativa” per le aziende è quella del recesso contra legem, ossia in “violazione” del divieto, in quanto consiste nell’elusione del divieto di licenziamento per motivi economici e nella ricerca, successiva (o meglio preventiva) all’intimazione del recesso, di un accordo individuale con il dipendente che preveda il pagamento di un importo a titolo transattivo e di incentivazione all’esodo a fronte della rinuncia, da parte di quest’ultimo, all’impugnazione del licenziamento. Tuttavia, a differenza dell’accordo collettivo appena illustrato, tale soluzione potrebbe esporre a una rilevante alea in caso di ripensamento del singolo lavoratore interessato.

Giova precisare che, anche in tali ipotesi, come riconosciuto dal Ministero del Lavoro (con nota 5481/2020) e dall’Inps (messaggio 2261/2020), il lavoratore ha diritto di accesso alla Naspi, salva la facoltà dell’Inps di recuperare quanto erogato qualora il lavoratore, a seguito di contenzioso giudiziale o stragiudiziale, dovesse essere reintegrato nel posto di lavoro.

In entrambe le ipotesi sopra esaminate, posto che l’accordo con il lavoratore disciplinerà inevitabilmente anche le rinunce di quest’ultimo a diritti e relative domande connessi al rapporto di lavoro, è necessario il passaggio in una delle sedi privilegiate previste dagli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile, ossia avanti l’ispettorato del lavoro, le commissioni di certificazione costituite presso le università o le commissioni di conciliazione in sede sindacale.

“Decreto Agosto”: nuovi strumenti e nuovi divieti per il datore di lavoro

Il Decreto Legge 14 agosto 2020, n. 104 (c.d. Decreto agosto), è intervenuto in molti ambiti nella materia del lavoro e, in particolare, si è occupato di approfondire, in questa delicata fase che il nostro Paese sta attraversando, i temi degli ammortizzatori sociali e dei licenziamenti.

In primo luogo, l’art. 1 del Decreto, rubricato “Nuovi trattamenti di cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga”, concede la possibilità ai datori di lavoro che nell’anno 2020 sospendono o riducono l’attività lavorativa a causa dell’emergenza COVID-19 di presentare domanda di fruizione dei trattamenti di integrazione salariale, per una durata massima di ulteriori 18 settimane, da collocarsi nel periodo che va dal 13 luglio 2020 al 31 dicembre 2020.

Nello specifico, è stata concessa a tutti i datori di lavoro privati la fruizione di un periodo di nove settimane senza obbligo di contribuzione previdenziale, ed ulteriori nove settimane solo per i datori di lavoro autorizzati a beneficiare interamente delle precedenti nove, i quali dovranno versare un contributo addizionale ex lege.

Il datore di lavoro che vuole beneficiare dei succitati strumenti deve inoltrare la domanda all’INPS entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione o di riduzione dell’attività lavorativa.

In secondo luogo, e in alternativa all’ipotesi precedentemente analizzata, l’art. 3 del Decreto, rubricato “Esonero dal versamento dei contributi previdenziali per aziende che non richiedono trattamenti di cassa integrazione”, si occupa di prevedere che i datori di lavoro privati, i quali non hanno richiesto i trattamenti di cui all’art. 1 del Decreto o che hanno già usufruito degli stessi nei mesi di maggio e giugno 2020, possano essere esonerati dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico per un periodo massimo di quattro mesi, utilizzabili entro il 31 dicembre 2020, e nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già godute nei mesi di maggio e giugno 2020. Si precisa, tuttavia, che per tutta la durata di tale esonero, sui datori di lavoro vige il divieto di licenziamento.

Infine, l’art. 14 del Decreto ha prorogato le disposizioni normative già in vigore, con riguardo ai licenziamenti collettivi ed individuali per giustificato motivo oggettivo.

Nello specifico, la norma ha previsto, per i datori di lavoro che non abbiano integralmente usufruito delle concessioni di cui agli artt. 1 e 3, il divieto di licenziamento fino al 31 dicembre 2020.

Viceversa, per i lavoratori che hanno usufruito dei succitati ammortizzatori sociali, è previsto un divieto di licenziamento fino all’avvenuta fruizione integrale di tali strumenti, i quali scadranno il 16 novembre 2020 (senza soluzione di continuità).

La norma prevede, altresì, quattro specifici casi in cui resta ferma la possibilità per il datore di lavoro di recedere dal rapporto:

  1. una prima fattispecie è quella dei licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività di impresa, la quale deve essere totale e definitiva, tanto da causare una chiusura o interruzione del complesso dei beni e servizi dell’azienda;
  2. la seconda ipotesi riguarda le società che incorrono nel fallimento, ove non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa;
  3. una terza fattispecie è quella della stipula di un accordo collettivo, da parte delle organizzazioni sindacali, che preveda un incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro;
  4. infine, l’ultima eccezione è quella riguardante il licenziamento del lavoratore coinvolto in un cambio appalto, come già disciplinato dall’art. 46, co. 1, D.L. 17 marzo 2020, n.18.

In conclusione, anche alla luce della nuova disposizione normativa, si può confermare che rimane invariata la possibilità per il datore di lavoro di intraprendere:

  • licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo;
  • licenziamenti per mancato superamento del periodo di prova;
  • licenziamenti per superamento del periodo di comporto;
  • risoluzione per compimento del periodo di apprendistato;
  • licenziamento dei dirigenti e collaboratori domestici.

Legislazione emergenziale e licenziamento del dirigente

La normativa entrata in vigore nel periodo di emergenza sanitario-economica che il nostro Paese sta attualmente vivendo è intervenuta in modo rilevante nella materia dei licenziamenti individuali e collettivi dei dipendenti privati, regolamentando la sospensione di alcune procedure in questione.

In particolare, l’art. 46 del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 (cd. Decreto Cura Italia), rubricato come “sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti” ha sancito che: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

Ebbene, tale norma, che non riguarda le “impugnazioni” come impropriamente recita la rubrica della norma, disciplina invero la sospensione di alcune procedure di licenziamento per 60 giorni a partire dall’entrata in vigore del Decreto ed introduce la moratoria del recesso da parte datoriale dal rapporto di lavoro con i propri dipendenti per i cd. motivi economici.

Per l’esattezza, sono vietati i licenziamenti per “giustificato motivo oggettivo”, ossia quelli intimati per motivi organizzativi e/o economici del datore di lavoro (art. 3, legge n. 604 del 1966). Il divieto vale indipendentemente dal numero dei dipendenti in forza presso il datore di lavoro ed anche se i motivi fossero indipendenti dall’attuale situazione di emergenza determinata dal Covid – 19.

Tale sospensione è stata poi prorogata fino a cinque mesi dalla recente norma di cui all’art. 80 del D.L. n. 34 del 19 maggio 2020 (cd. Decreto Rilancio).

Tuttavia, la norma, sintetica ma non esauriente, ha suscitato da subito rilevanti perplessità interpretative. Uno dei dubbi che, ad oggi, attanaglia la maggior parte dei lettori della normativa è quello riguardante l’applicabilità o meno del divieto di cui all’art. 46 del Decreto alla casistica del licenziamento del dirigente.

Ebbene, ciò che si può affermare alla luce delle prime ermeneutiche della disciplina è che si possano configurare almeno due distinte ipotesi ricostruttive.

In primo luogo, con riferimento ai licenziamenti collettivi, pare senza dubbio che neppure i dirigenti possano essere coinvolti in tali procedure di licenziamento nel periodo che va dal 17 marzo al 17 agosto 2020. Ciò in quanto, sempre in ragione della forza cogente dell’art. 46, il datore di lavoro non potrà, in alcuna ipotesi, avviare le procedure per il licenziamento collettivo, in conformità a quanto previsto dai succitati artt. 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223.

In secondo luogo, con riguardo all’ipotesi di licenziamento individuale del dirigente, occorre specificare come, da un’attenta lettura della succitata norma unita alla visione sistematica dell’inquadramento del dirigente, scaturiscano due fattispecie differenti.

In particolare, giova premettere che l’art. 46 ha puntualizzato che il datore di lavoro, nel periodo di sospensione in questione, non può recedere dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 604/66.

Ebbene, nel caso di recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale per ragioni economiche, la norma che verrebbe invocata ed utilizzata sarebbe l’art. 2118 c.c. e non l’art. 3 della Legge n. 604/66 (norma alla quale rinvia in maniera compiuta ed esplicita il suddetto art. 46), che è invece inapplicabile al personale dirigenziale per espressa previsione dell’art. 10 della medesima Legge n. 604/66.

A valle di simile argomenti, appare legittimo concludere che i dirigenti veri rimarrebbero dipendenti “licenziabili” anche in periodo di emergenza COVID-19 – in ragione della nozione di “giustificatezza” – in quanto non assoggettati alle tutele contrattuali della L. n. 604/1966 anche nel periodo di vigenza dell’espresso divieto di licenziamento che, al contrario, vale per le altre categorie di lavoratori, quadri, impiegati ed operai.

Al contrario, solo i dirigenti minori o, meglio, quelli definiti dalla giurisprudenza come “pseudo-dirigenti” ed equiparati dalla medesima alla categoria impiegatizia, risulteranno destinatari delle tutele previste dalla L. n. 604/66 e, per l’effetto, dovrebbero rimanere destinatari anche degli effetti sospensivi della norma (art. 46 Decreto Cura Italia) e della rispettiva proroga del periodo di sospensione introdotta dal Decreto Rilancio.

Civile / Le locazioni ad uso commerciale in tempo di emergenza sanitario – economica

L’emergenza epidemiologica dei nostri giorni ed i conseguenti provvedimenti attuati dal Governo hanno avuto un forte impatto sui rapporti commerciali e privatistici nel nostro Paese. La chiusura degli esercizi commerciali e la sospensione delle attività produttive generano esigenze contrapposte tra i proprietari degli stabili ed i conduttori e, pertanto, la necessità di interpretazione e gestione dei contratti di locazione in essere, in particolar modo con riferimento a quelli relativi agli immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, ossia commerciale.

In relazione alla materia locatizia, il primo intervento normativo si è rivelato non del tutto soddisfacente, atteso che l’art. 65 del D.L. n. 18/2020 (cd. Decreto Cura Italia) ha riguardato meramente le attività commerciali ritenute “non essenziali” ai sensi del D.P.C.M 11 marzo 2020, con conseguente esclusione di quelle attività che non hanno dovuto sospendere il proprio servizio.

In ogni caso, con il cd. “Decreto Cura Italia”, il Governo ha previsto, all’art. 65, 1 co., che “Al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, ai soggetti esercenti attività d’impresa è riconosciuto, per l’anno 2020, un credito d’imposta nella misura del 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1”.

Ebbene, poiché è plausibile che il pagamento dell’importo del canone di locazione originariamente pattuito divenga insostenibile in una cornice di complessiva recessione economica, occorre valutare quali strumenti giuridici siano utilizzabili, nella specifica contingenza emergenziale, per fronteggiare il pericolo della impossibilità, per il conduttore, di sostenere l’importo del canone originariamente pattuito.

a. ESERCIZIO DEL DIRITTO DI RECESSO EX ART. 27 L. N. 392/1978.

Il primo strumento ipotizzabile è il diritto di recesso previsto dall’art. 27, ultimo comma, Legge n. 392/1978, il quale stabilisce che “Indipendentemente dalle previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata”.

Tale disposizione prevede dunque che, nel momento in cui ricorrano motivi talmente gravi da non consentire il prosieguo della locazione, il conduttore possa recedere dal contratto, qualora i motivi siano sopravvenuti, estranei alla volontà del conduttore e imprevedibili (Cass. 13 giugno 2017, n. 14623; Cass. 27 marzo 2014, n. 7217).

A ciò si aggiunga che è il conduttore ad avere l’onere della prova circa la fondatezza dei citati gravi motivi, sempre secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità.

b. AZIONABILITÀ DELLA RISOLUZIONE PER ECCESSIVA ONEROSITÀ EX ART. 1467 C.C.

Un altro strumento utilizzabile dal conduttore è quello relativo alla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1467 c.c., il quale sancisce che “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto”.

L’istituto in esame si applica allorquando un evento, straordinario e imprevedibile, dunque estraneo alla normale alea del contratto, renda l’esecuzione della prestazione per una delle parti assai più onerosa rispetto a quanto prevedibile prima di tale evento.

Anche in questo caso, incombe sul conduttore l’onere di provare che l’evento sopravvenuto ha determinato un’alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e la riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili (Tribunale di Milano, Sezione Spec. Imprese, Sentenza 3 luglio 2014, n. 8878).

Ferme le possibili applicazioni dei sopra menzionati istituti giuridici, si deve altresì considerare la possibilità per il conduttore di evitare di recedere dal contratto di locazione, proponendo la modifica delle condizioni dell’accordo, così da riequilibrare il rapporto sinallagmatico.

c. IPOTIZZABILITÀ DELLA DOMANDA DI REDUCTIO AD AEQUITATEM.

Ancora in un’ottica di conservazione dei rapporti giuridici, potrebbe altresì percorrersi una terza ipotesi, ossia verificare l’ammissibilità della domanda di reductio ad aequitatem, mediante la quale la parte contro cui è domandata la risoluzione del contratto può promuovere un negozio di tipo processuale idoneo a ridurre ad equità le condizioni del contratto.

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È dunque pacifico che il conduttore non possa far riferimento arbitrariamente ad un diritto alla sospensione o alla riduzione del canone, ad eccezione dei casi esplicitamente previsti dalla legge e dalla giurisprudenza. Difatti, qualsiasi azione unilaterale, in assenza delle succitate condizioni, sarebbe considerata illegittima e costituirebbe un inadempimento contrattuale.

Nello stesso senso, si significa che l’autonomia contrattuale cristallizzata in un contratto stipulato tra privati non può subire direttamente deroghe, sospensioni o annullamenti da un atto avente forza di legge.

Il Legislatore può eventualmente intervenire sulle norme generali che regolano una fattispecie contrattuale determinata e che integrano le lacune del negozio giuridico volutamente lasciate dalle parti alla disciplina di legge.

È quanto avvenuto con l’introduzione dell’art. 91 del Decreto Cura Italia che prevede, per ogni tipo di contratto o obbligazione (a titolo esemplificativo appalti, forniture di beni e servizi, contratti preliminari etc.), fino a quando durerà il periodo emergenziale, che “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Ai sensi della predetta disposizione di carattere generale, applicabile dunque anche ai contratti di locazione in essere, gli eventuali ritardi nel pagamento del canone locatizio durante la vigenza delle norme emergenziali non dovrebbero costituire o concorrere a determinare il grave inadempimento contrattuale che, ai sensi dell’art. 1455 c.c., è idoneo alla risoluzione del contratto di locazione.

Il conduttore citato in giudizio dal locatore, nell’azione di sfratto o di morosità, potrebbe pertanto avvalersi di tale disciplina eccezionale ed emergenziale per opporsi alla domanda del locatore.

Si precisa tuttavia che la portata così ampia e generica dell’inciso della norma rende imprevedibile l’effettiva interpretazione giurisprudenziale, anche in considerazione del fatto che la valutazione della condotta inadempiente del conduttore è rimessa esplicitamente dalla stessa norma alla discrezionalità del Giudice. Questi avrà il compito di valutare, caso per caso, la meritevolezza o meno del soggetto che invoca l’applicazione dell’“esimente” prevista dell’art. 91 D.L. 18/2020.

Pertanto, al contraente-conduttore converrà verificare preventivamente e prudenzialmente la sussistenza dei requisiti necessari per poter invocare l’applicazione al suo caso della disposizione di cui all’art. 91 del D.L. 18/2020, anche alla luce del complessivo andamento del rapporto contrattuale.

Resta inteso che, per fronteggiare congiuntamente la grave situazione emergenziale attualmente vigente nel nostro Paese, le parti potrebbero altresì concordare sospensioni, riduzioni o posticipazioni del pagamento del canone, anche ricorrendo all’istituto della mediazione ex D.Lgs. 28/2010, avvalendosi semmai in quella sede dell’applicazione dell’art. 91 del Decreto Cura Italia.

Cassazione / Tutela del committente rafforzata nel contratto d’appalto con la doppia garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1669 c.c.

In tema di appalto sussiste la concorrenza delle garanzie previste dagli artt. 1667 e 1669 c.c., in vista del rafforzamento della tutela del committente; ne consegue che, ove a fondamento della domanda siano dedotti difetti della costruzione così gravi da incidere sugli elementi essenziali dell’opera stessa, influendo sulla sua durata e compromettendone la conservazione, il giudice è sempre tenuto, ove le circostanze lo richiedano, a qualificare la domanda, in termini di risarcimento per responsabilità extracontrattuale (art. 1669 c.c.), ovvero contrattuale di adempimento o riduzione del prezzo e risoluzione (art. 1667 c.c.)” (Cass. Civ., sez. II, 25 luglio 2019, n. 20184).

Di recente,la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta ancora una volta in materia di contratto d’appalto privato e, nello specifico, ha approfondito l’argomento relativo alla tutela del committente in presenza di vizi o difetti di costruzione, con riferimento ai due tipi di garanzia previsti dal Codice Civile, agli artt. 1667 e 1669.

Innanzitutto, preme rammentare la disciplina di tali istituti e gli elementi che differenziano l’uno dall’altro. L’art. 1667 c.c., rubricato “Difformità e vizi dell’opera”, stabilisce che, in caso di difformità o vizi dell’opera, il committente può invocare una garanzia nei confronti dell’appaltatore, entro sessanta giorni dalla scoperta, e può intentare l’azione in un termine prescrizionale di due anni dal giorno della consegna dell’opera.

L’art. 1669 c.c., rubricato come “Rovina e difetti di cose immobili”, invece, disciplina una peculiare responsabilità dell’appaltatore se, nel corso di dieci danni dal compimento, l’opera per vizio del suolo o per difetto della costruzione – qualora si tratti di edifici o di altre cose immobili – rovini in tutto o in parte, ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti. In tal caso, la responsabilità dell’appaltatore sussiste e potrà essere azionata purché sia fatta denuncia dal committente o dai suoi aventi causa entro un anno dalla scoperta e purché l’azione giudiziale del committente sia esercitata entro il termine prescrizionale di un anno dalla denuncia.

Ebbene, l’art. 1667 c.c. riguarda l’ipotesi di vizio derivante da difformità rispetto al progetto concordato nel contratto di appalto oppure da esecuzione dell’opera non a regola d’arte. Al contrario, l’art. 1669 c.c. concerne i vizi costruttivi che incidono sugli elementi essenziali di struttura e funzionalità dell’opera stessa, influendo quindi su elementi quali solidità, efficienza e durata, ovvero limitandone notevolmente la fruibilità.

La Suprema Corte, con ordinanza n. 20184 del 25 luglio 2019, ha ribadito il proprio orientamento secondo il quale, in tema di appalto, non sussiste incompatibilità tra le tipologie di responsabilità di cui agli artt. 1667 e 1669 c.c. Per l’effetto, in caso di “gravi difetti” dell’opera, il committente potrà invocare, oltre alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c., anche quella prevista dall’art. 1667 c.c., purché il committente non sia incorso nelle decadenze previste per tale tipologia di responsabilità.

La ratio di tale orientamento è riscontrabile nel fatto che, nonostante la diversità di natura giuridica sottesa alle due fattispecie di responsabilità – l’art. 1667 c.c. sancisce una responsabilità di natura contrattuale, l’art. 1669 c.c. disciplina una responsabilità di natura extracontrattuale – per quanto riguarda la struttura di tali istituti, le relative fattispecie si configurano l’una (art. 1669 c.c.) come sotto-insieme dell’altra (art. 1667 c.c.), con la conseguenza di un rafforzamento delle garanzie a tutela del committente (la cosiddetta “concorrenza di garanzie”).

In definitiva, sarà il giudice di merito che, di volta in volta, dovrà qualificare la domanda giudiziale, analizzando l’entità dei vizi posti a fondamento della stessa e applicando la soluzione più adeguata al caso di specie, nel rispetto del principio di rafforzamento delle garanzie a tutela del committente.

Giurisprudenza / Il revirement della Corte Suprema sugli obblighi motivazionali della P.A. nel caso di impugnazione dell’avviso di riclassamento dell’immobile ed attribuzione di nuova rendita catastale.

Con la recentissima ordinanza n. 591 del 15 gennaio 2020, la Corte Suprema interviene nuovamente nel solco del copioso contenzioso tributario incardinatosi in ragione della massiva attività di rideterminazione del classamento e attribuzione di nuova rendita catastale posta in essere dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 1, comma 335, Legge n. 311/2004, accogliendo il ricorso di due contribuenti che lamentavano il vizio di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato e confermando il revirement in corso del precedente orientamento giurisprudenziale prevalente.

La Corte Suprema precisa quale sia la sufficienza dell’obbligo motivazionale incombente sugli atti dell’Amministrazione Finanziaria, in tema di estimo catastale, a seconda che lo stesso debba supportare l’attivazione autonoma dell’Agenzia del Territorio competente ovvero l’attivazione dell’Agenzia a seguito dell’iniziativa del contribuente, mediante la cd. procedura “DOCFA”.

Mentre nella seconda fattispecie l’obbligo motivazionale risulta soddisfatto con la semplice indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita all’unità immobiliare, qualora gli elementi di fatto individuati dal contribuente siano confermati dall’Amministrazione stessa e l’eventuale differenza tra rendita proposta e attribuita sia dovuta ad una mera valutazione tecnica inerente il valore economico dei beni, la conclusione cui perviene il Giudice di Legittimità è totalmente opposta qualora ricorra la prima fattispecie.

Secondo la Corte, infatti, nel caso di iniziativa dell’Ufficio, la motivazione dovrà essere più approfondita, sia per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente, che dovrà necessariamente essere posto nella condizione di valutare se prestare o meno acquiescenza al provvedimento e di approntare la migliore strategia processuale, sia per delimitare l’oggetto dell’eventuale contenzioso, cristallizzando così le ragioni poste a fondamento dell’avviso e impedendo, altresì, all’Agenzia di aggiungere ulteriori profili rispetto a quanto indicato nell’atto, sulla base della prospettazione offerta dal contribuente stesso.

In merito, la Corte precisa che la motivazione dell’atto di riclassamento non può subire integrazioni nel giudizio di impugnazione, al fine di impedire “un inammissibile giudizio ex post della sufficienza della motivazione, argomentata dalla difesa svolta in concreto dal contribuente, piuttosto che un giudizio ex ante basato sulla rispondenza degli elementi enunciati nella motivazione….

La pronuncia in esame consolida, quindi, anche alla luce delle recenti indicazioni interpretative espresse dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 249/2017, l’orientamento secondo cui, nel caso di nuovo classamento ex art. 1, comma 335, L. 30 n. 311/2004, nell’ambito di una revisione dei parametri catastali della microzona in cui l’immobile è situato, giustificata dallo scostamento significativo del rapporto tra valore di mercato e valore catastale in una determinata microzona rispetto all’analogo rapporto nell’insieme delle microzone comunali, l’Amministrazione finanziaria non potrà esimersi dalla valutazione, nel caso concreto, del singolo immobile, rispettando in tal modo esigenze di “concretezza e di analiticità”, non risultando sufficiente una “motivazione standardizzata, applicata indistintamente, che si limiti a richiamare i presupposti normativi in modo assertivo (Cass. 3156/2018; Cass. 23129/2018; Cass. 28035/2018; Cass. 2876/2018; Cass. 9770/2019).

Pertanto, un’operazione di riclassamento di massa dal carattere così diffuso e seriale, come quella del caso di specie, potrà essere considerata legittima solo se supportata da una motivazione tanto precisa quanto rigorosa.

In conclusione, la Corte afferma e fissa il seguente principio di diritto: “In tema di estimo catastale, il nuovo classamento adottato ai sensi dell’art. 1, comma 335, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311, soddisfa l’obbligo di motivazione se, oltre a contenere il riferimento ai parametri di legge generali, quali il significativo scostamento del rapporto tra il valore di mercato ed il valore catastale rispetto all’analogo rapporto sussistente nell’insieme delle microzone comunali, ed ai provvedimenti amministrativi su cui si fonda, consente al contribuente di evincere gli elementi, che non possono prescindere da quelli indicati nell’art. 8 del D.P.R. 23 marzo 1998 n. 138 (quali la qualità urbana del contesto nel quale l’immobile è inserito, la qualità ambientale della zona di mercato in cui l’unità è situata, le caratteristiche edilizie del fabbricato e della singola unità immobiliare), che, in concreto, hanno inciso sul diverso classamento, ponendolo in condizione di conoscere ex ante le ragioni specifiche che giustificano il singolo provvedimento di cui è destinatario, seppure inserito in un’operazione di riclassificazione a carattere diffuso”.

 

 

Giurisprudenza / Prova scritta ex art. 634 c.p.c. per l’emissione del decreto ingiuntivo e fatturazione elettronica.

Secondo una recente ed interessante giurisprudenza di merito, le fatture elettroniche generate e trasmesse mediante il Sistema di Interscambio di cui all’articolo 1, commi 211 e 212, L. 244/2007 non soddisfano da sole il requisito della prova scritta di cui all’art. 633, n. 1 c.p.c., necessario ai fini della emissione del decreto ingiuntivo, se non accompagnate dall’estratto autentico notarile richiesto dall’art. 634, co. 2 c.p.c. (Tribunale Vicenza, sez. II, 25/10/2019).

A tal proposito, preme rammentare innanzitutto che, affinché il ricorso per decreto ingiuntivo sia considerato ammissibile, si deve fornire al giudice una cd. prova scritta a fondamento del diritto vantato. In materia l’art. 634, co. 2, c.p.c. stabilisce infatti che “Per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano una attività commerciale e da lavoratori autonomi anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e seguenti del codice civile, purché bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute con l’osservanza delle norme stabilite per tali scritture”.

Pertanto, in caso di crediti derivanti da fatture cartacee, si richiedeva il deposito dell’estratto notarile autentico delle stesse. Ebbene, con l’introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica, si è posto il problema di comprendere se queste ultime siano già di per sé titoli idonei per l’emissione di un decreto ingiuntivo o meno e si sono, di conseguenza, sviluppati diversi orientamenti giurisprudenziali.

Il Tribunale di Vicenza, con la citata sentenza del 25 ottobre 2019, ha sancito il principio secondo cui la fattura elettronica, da sola, non soddisfa il requisito della prova scritta previsto dall’art. 634, co. 2, c.p.c., a meno che non sia accompagnata dal relativo estratto autentico notarile.

La ratio della posizione assunta dal Tribunale vicentino si rinviene nel fatto che la produzione dell’estratto autentico notarile delle scritture contabili garantirebbe il controllo della regolare tenuta di tali scritture, verifica che non può essere effettuata sulla scorta della mera fatturazione elettronica. Poiché, dunque, il Sistema di Interscambio (SDI) – di cui all’art. 1, commi 211 e 212, L. 244/2007 – garantisce solo l’autenticità delle fatture, il ricorrente (per l’ottenimento del provvedimento monitorio) è sempre tenuto a produrre in giudizio l’estratto autenticato delle scritture contabili, ai fini del conseguimento della prova scritta prevista dall’art. 634 c.p.c.