Tutela dei consumatori e tutela delle associazioni dei consumatori
Al fine di tutelare al meglio i diritti dei consumatori, le organizzazioni che in Italia si occupano della tutela dei consumatori hanno mirato sempre più a veder riconosciute prerogative, diritti e poteri che consentissero la possibilità di monitoraggio, ricognizione, indagine ed, eventualmente, azione in difesa dei consumatori.
A ciò si è puntato da parte dell’associazionismo italiano attraverso la ricerca e la conquista del riconoscimento statale, in particolare mediante l’iscrizione nello speciale elenco tenuto dall’allora Ministero delle Attività Produttive e l’inserzione di diritto nel gruppo delle associazioni componenti il Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti (CNCU)[1].
Riconoscimento pubblico fondato sul requisito della esclusività dell’oggetto: ai fini della qualifica di associazione dei consumatori riconosciuta ed iscritta nell’elenco del Ministero costituisce presupposto indefettibile il previo accertamento che l’ente richiedente l’iscrizione si occupi esclusivamente di consumatori ed utenti come definiti nell’art. 2 lett. a) della legge n. 281/98 e che, concordemente, abbia natura di “formazione sociale che abbia per scopo statutario esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degli utenti” (art. 2 lett. b) della stessa legge[2].
Non solo. La legge-quadro del 1998 ha introdotto i corollari necessari di tale riconoscimento: la legittimazione ad agire, il diritto al finanziamento pubblico.
Tali caratteristiche non solo hanno consentito ai soggetti beneficiati di sopravvivere, ma anche di poter lavorare, espandersi, conquistare spazi sui media, imporsi come un nuovo attore nell’agone lato sensu politico-economico, oltre che nel palcoscenico mediatico.
Del resto, gli strumenti per agire sono semplici, essenziali ma forti: i contributi pubblici consentono di “vivere” e la legittimazione ad agire in giudizio spaventa i produttori ed i professionisti.
Circa il finanziamento o sostentamento economico pubblico, giova rammentare che esso è previsto per legge, attuato per volontà degli enti pubblici (anche locali) e raccolto per libera adesione delle associazioni.
Trasparenza vuole che si rammenti come tale finanziamento pubblico per le associazioni si aggiunge alle quote associative richieste ai singoli privati fruitori dei servizi offerti dalle associazioni ed agli introiti derivanti dall’esecuzione di progetti locali, nazionali ed europei.
Intanto, come già la legge n. 281 del 1998, anche l’art. 138 del Codice del consumo ha attribuito alle associazioni aderenti al CNCU (quelle cd. riconosciute) le agevolazioni ed i contributi previsti dalla normativa di settore per le iniziative editoriali[3].
La norma è evidentemente collegata alla rilevanza che il legislatore ha attribuito all’informazione del consumatore inteso come strumento fondamentale di autotutela.
Altra fonte di finanziamento per le associazioni componenti il CNCU è prevista dall’art. 148 della Legge 23 dicembre 2000, n. 388 che prevede la destinazione degli introiti derivanti dalle sanzioni irrogate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato alle iniziative a vantaggio dei consumatori.
Le somme sono rassegnate con decreto del Ministero dell’Economia ad un apposito fondo iscritto nello stato di previsione del Ministero delle Attività produttive, il quale individua, con decreto ad hoc, le iniziative cui destinare detti fondi, previa consultazione delle competenti Commissioni parlamentari.
I benefici finanziari pubblici sono assicurati anche dalla Legge 5 marzo 2001, n. 57 che, al suo art. 16, ha previsto il finanziamento (all’epoca pari a tre miliardi di lire) di progetti promossi dalle sole associazioni dei consumatori e degli utenti iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 della Legge-quadro[4].
Anche in questo caso, va da sé che i contributi e le agevolazioni sono concesse alle associazioni che ne hanno i requisiti.
Meno noto, in relazione a tale finanziamento pubblico, è quali siano i criteri di assegnazione, chi stabilisca i settori di intervento, a chi si renda il conto, se vi siano sanzioni in caso di cattiva o inefficiente gestione del denaro pubblico.
Di contro, viene pure da chiedersi se sia corretto un organo statale abbia il diritto di giudicare l’operato delle associazioni.
Di certo sarebbe salutare che, come in letteratura si ritiene e la Storia ha confermato, che “qualcuno vigili anche sui controllori”, al fine di evitare che fenomeni di compiacenza da parte dei cd. controllori verso i cd. controllati rendano velleitario e pleonastico il sistema di garanzie predisposto dall’ordinamento.
Nel caso di specie (tutela del consumatore), se ciò accadesse, lascerebbe privi di tutela beni ed interessi come la salute collettiva, la qualità e sicurezza di prodotti e servizi di primaria importanza, l’informazione e la corretta pubblicità commerciale, l’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza.
Peraltro, i diritti ed i vantaggi di cui si discorre concernono soltanto le cd. associazioni dei consumatori riconosciute.
Le altre associazioni non solo non esistono ufficialmente, non hanno diritto a contributi pubblici e, soprattutto, non potranno mai preoccupare le imprese perché, prive della legittimazione ad agire, giudiziariamente rappresentano tigri di carta.
Pertanto, le associazioni dei consumatori cd. riconosciute – vale a dire, il gruppo storico di esse che siede presso il Ministero riunite nel CNCU – hanno una enorme responsabilità verso la collettività, in quanto esse hanno preteso e conseguito non solo che fossero riconosciute dallo Stato e che fossero riunite in un organismo statale, ma pure che ricevessero contributi pubblici diretti.
Tuttavia, in questo modo un fenomeno di associazionismo sorto dal basso, intriso del salutare humus del contro-potere, con l’ambizione di rappresentare ed integrare in campo consumeristico il “potere dei senza potere”[5] rischia di essere anestetizzato dalla eccessiva contiguità, oramai sancita per legge e per consenso delle associazioni stesse, con i pubblici poteri e con il mondo dei produttori.
In realtà, esistono numerose altre realtà, organizzazioni ad oggetto sociale più ampio, associazioni di consumatori stesse ma non riconosciute, associazioni ambientaliste che, pur non disponendo di un patrimonio di esperienze e di iscrizioni paragonabili a quello di altri paesi comunitari o a quello nord-americano, si collocano tuttavia come validissimi interlocutori dei pubblici poteri.
A questo punto, se le associazioni consumeristiche nate per fare le pulci ai soggetti da controllare, quali lo Stato ed i pubblici poteri, nazionali e locali, esistono solo se questo le riconosce e le alimenta, resta da chiedersi: chi controlla i controllori?
Se il “quarto potere” dei consumatori, con la missione di monitorare l’operato del mondo produttivo e le performance dei servizi pubblici, rischia di essere, in questo modo, ingabbiato ed annacquato, chi svolgerà la stessa funzione sociale con la massima indipendenza richiesta?
[1] In ordine al CNCU, si rinvia a quanto già detto nell’ultimo numero de Il Laboratorio dei 100, nella medesima rubrica Diritto, dogmi e finzioni
[2] Lo ha ribadito il TAR Lazio, Sezione III Ter, con sentenza n. 7103 dell’8 agosto 2006, cfr. www.altalex.it, n. 1524 del 15 settembre 2006, su ricorso della USICONS – Associazione per la tutela dei diritti e degli interessi degli utenti di servizi pubblici e privati e dei consumatori avverso il Ministero delle Attività Produttive
[3] I criteri e le modalità di tali agevolazioni e contributi sono stati definiti con Dpcm 15 marzo 1999, n. 218
[4] Ha individuato i criteri per il finanziamento di tali progetti il D.M. del Ministero dell’Industria 24 maggio 2001, n. 273. In esso, si precisa che la richiesta di contributo va inoltrata al Ministero per le Attività Produttive – Direzione Generale per l’armonizzazione del mercato e la tutela dei consumatori – Ufficio Politiche nazionale e diritti dei consumatori. Sarà questo ufficio a decidere sulla idoneità del progetto avanzato dalla associazione e della ammissione al contributo statale. Il contributo, secondo il decreto ministeriale del 2001, prevedeva la misura massima di 300 milioni di lire a progetto.
[5] V. Havel, Il potere dei senza potere.