Cassazione / Sul risarcimento del danno da demansionamento

Con la recente sentenza n. 16595 del 20 giugno 2019 la Suprema Corte si è nuovamente pronunciata sull’annosa questione del danno alla professionalità, disaminando la fattispecie di un lavoratore demansionato che, in primo grado di giudizio, aveva ottenuto un risarcimento del danno patrimoniale pari al 50% della retribuzione percepita. In sede di gravame, tuttavia, la sentenza veniva parzialmente riformata e la Corte d’Appello di Roma riduceva l’ammontare del risarcimento al 30% delle retribuzioni maturate. Quanto sopra, in virtù di una prassi giurisprudenziale di merito che non teneva in alcuna considerazione fattori viceversa rilevanti quali, a titolo esemplificativo, la perdita di benefit e i mancati incrementi retributivi.

Nella sentenza in esame, gli Ermellini rinsaldano l’orientamento prevalente sulla quantificazione del danno da demansionamento, confermando la possibilità di un giudizio in via equitativa, seppur dettagliatamente motivato.

Come noto, l’art. 2103, co. 1 c.c. prevede che il lavoratore sia assegnato alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti e, costituendo presidio inderogabile ai principi di libertà e dignità del lavoratore, la nullità di ogni patto contrario.

Dalla violazione dell’art. 2103 c.c. da parte datoriale, può derivare un danno di perdita della professionalità di natura patrimoniale consistente sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di ulteriori capacità lavorative, sia nella perdita di chances, nel senso di perdita delle possibilità di maggior guadagno o di potenzialità occupazionali.

In altri termini, la violazione dell’art. 2103 c.c. può arrecare grave pregiudizio alla professionalità del prestatore di lavoro, rappresentando un parametro essenziale nella determinazione del valore di un soggetto in ambito lavorativo e, quindi, un bene economicamente valutabile.

Ebbene, è evidente che in una fattispecie di danno tanto diversificato e condizionato da plurime variabili, al giudice di merito sia consentito il ricorso al giudizio di equità, ex art. 1226 c.c.

Corollario di tale operazione è che incombe sul lavoratore il relativo onere probatorio, mediante allegazione di tutte le circostanze rilevanti, ivi incluse le presunzioni relative ad elementi gravi, precisi e concordanti, inerenti gli elementi di fatto relativi a qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità, alla durata del demansionamento, all’esito della dequalificazione.

Una volta accertato il demansionamento,  è rimessa al prudente apprezzamento del giudice la facoltà di determinare l’entità del risarcimento in via equitativa, indicando nella parte motiva l’iter logico seguito nella valutazione, ossia i parametri seguiti per la determinazione del quantum del danno patito e gli elementi su cui ha basato la propria decisione.

Nella fattispecie esaminata, la Corte d’Appello non aveva motivato adeguatamente la decisione e, omettendo di enunciare i criteri di valutazione seguiti, aveva impedito alle parti di verificare il procedimento logico seguito nella quantificazione del risarcimento del danno.

Anzi, il Collegio giudicante aveva meramente richiamato la prassi giurisprudenziale in virtù della quale il danno da demansionamento veniva generalmente riconosciuto nel 30% della retribuzione percepita, senza aggiungere alcuna motivazione sul punto.

La Corte di Cassazione ha pertanto cassato la sentenza con rinvio.