Civile / Diffamazione a mezzo stampa: risarcibilità del danno non patrimoniale in favore delle persone giuridiche

La divulgazione di notizie lesive dell’onore e della reputazione altrui, oltre a configurare il reato di diffamazione disciplinato all’art. 595 c.p., costituisce un illecito civile ed è pertanto fonte di obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c.

I danni da diffamazione, generalmente, non involgono soltanto la sfera patrimoniale del soggetto danneggiato, ma si estendono a quelle situazioni giuridiche inerenti alla persona, non connotati da valore di scambio, e che sono pacificamente riconducibili nella categoria del danno non patrimoniale,  disciplinato all’art. 2059 c.c.

Nel nostro ordinamento, infatti, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore – costituzionalmente garantito – quale, a titolo esemplificativo, l’identità personale, il nome,  l’immagine e la reputazione.

Ebbene, tali diritti ricevono tutela principalmente con riferimento alle persone fisiche. Tuttavia, non vi è ragion di ritenere che la tutela di cui si discute sia preclusa per le persone giuridiche.

Il codice civile, infatti, disciplina, nel primo libro, sia le persone fisiche (art. 1 ss.) sia le persone giuridiche (art. 11 ss.), come due species di un unico genus, cui vengono riferite le norme dei successivi libri, nei limiti della compatibilità. Ciò porta ad escludere l’applicabilità alle persone giuridiche unicamente di quelle norme che presuppongono una determinata condizione fisica del soggetto (quali, ad esempio, quelle relative al matrimonio, alla filiazione ed ai rapporti di diritto familiare in genere).

Pertanto, anche le persone giuridiche possono godere di quelle forme di protezione che discendono direttamente dal dettato costituzionale ed in modo particolare dalla previsione generale dell’art. 2 Cost. che tutela le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.

Sul punto, si richiama il granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale il danno non patrimoniale all’immagine ed alla reputazione si può configurare anche nei confronti della persona giuridica quando il fatto lesivo colpisce una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione (Cass., sez. I, n. 12929/2007; Cass., sez. III, n. 29185/2008; Cass., sez. III, n. 20643/2016).

Ebbene, poiché l’immagine della persona giuridica rientra tra tali diritti, può essere risarcito anche il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica nella quale si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che tale riduzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente, e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della riduzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica sovente interagisce.

Quanto alla prova della lesività della condotta e del conseguente verificarsi del danno-conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che essa è raggiunta anche mediante il ricorso a presunzioni, quali, ad esempio la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (ex multis: Cass. civ., sez. 3, 26 ottobre 2017 n. 25420, Cass. civ., sez. 6, 31 marzo 2021 n. 8861).

 

Infine, la quantificazione e liquidazione di tali danni dovrà avvenire in ragione di un criterio equitativo, secondo parametri cristallizzati dal lavoro della giurisprudenza ma che, in ogni caso, dovranno aver riguardo alla coscienza nei responsabili della potenzialità lesiva della pubblicazione della altrui reputazione, alla attribuzione di fatti offensivi determinati e circostanziati, alla diffusione del giornale, alla credibilità di cui gode presso il pubblico, alla collocazione ed evidenza grafica degli articoli stessi, alla gravità dell’addebito, alla suggestione indotta nei lettori.

Civile / Le locazioni ad uso commerciale in tempo di emergenza sanitario – economica

L’emergenza epidemiologica dei nostri giorni ed i conseguenti provvedimenti attuati dal Governo hanno avuto un forte impatto sui rapporti commerciali e privatistici nel nostro Paese. La chiusura degli esercizi commerciali e la sospensione delle attività produttive generano esigenze contrapposte tra i proprietari degli stabili ed i conduttori e, pertanto, la necessità di interpretazione e gestione dei contratti di locazione in essere, in particolar modo con riferimento a quelli relativi agli immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, ossia commerciale.

In relazione alla materia locatizia, il primo intervento normativo si è rivelato non del tutto soddisfacente, atteso che l’art. 65 del D.L. n. 18/2020 (cd. Decreto Cura Italia) ha riguardato meramente le attività commerciali ritenute “non essenziali” ai sensi del D.P.C.M 11 marzo 2020, con conseguente esclusione di quelle attività che non hanno dovuto sospendere il proprio servizio.

In ogni caso, con il cd. “Decreto Cura Italia”, il Governo ha previsto, all’art. 65, 1 co., che “Al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, ai soggetti esercenti attività d’impresa è riconosciuto, per l’anno 2020, un credito d’imposta nella misura del 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1”.

Ebbene, poiché è plausibile che il pagamento dell’importo del canone di locazione originariamente pattuito divenga insostenibile in una cornice di complessiva recessione economica, occorre valutare quali strumenti giuridici siano utilizzabili, nella specifica contingenza emergenziale, per fronteggiare il pericolo della impossibilità, per il conduttore, di sostenere l’importo del canone originariamente pattuito.

a. ESERCIZIO DEL DIRITTO DI RECESSO EX ART. 27 L. N. 392/1978.

Il primo strumento ipotizzabile è il diritto di recesso previsto dall’art. 27, ultimo comma, Legge n. 392/1978, il quale stabilisce che “Indipendentemente dalle previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata”.

Tale disposizione prevede dunque che, nel momento in cui ricorrano motivi talmente gravi da non consentire il prosieguo della locazione, il conduttore possa recedere dal contratto, qualora i motivi siano sopravvenuti, estranei alla volontà del conduttore e imprevedibili (Cass. 13 giugno 2017, n. 14623; Cass. 27 marzo 2014, n. 7217).

A ciò si aggiunga che è il conduttore ad avere l’onere della prova circa la fondatezza dei citati gravi motivi, sempre secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità.

b. AZIONABILITÀ DELLA RISOLUZIONE PER ECCESSIVA ONEROSITÀ EX ART. 1467 C.C.

Un altro strumento utilizzabile dal conduttore è quello relativo alla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1467 c.c., il quale sancisce che “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto”.

L’istituto in esame si applica allorquando un evento, straordinario e imprevedibile, dunque estraneo alla normale alea del contratto, renda l’esecuzione della prestazione per una delle parti assai più onerosa rispetto a quanto prevedibile prima di tale evento.

Anche in questo caso, incombe sul conduttore l’onere di provare che l’evento sopravvenuto ha determinato un’alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e la riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili (Tribunale di Milano, Sezione Spec. Imprese, Sentenza 3 luglio 2014, n. 8878).

Ferme le possibili applicazioni dei sopra menzionati istituti giuridici, si deve altresì considerare la possibilità per il conduttore di evitare di recedere dal contratto di locazione, proponendo la modifica delle condizioni dell’accordo, così da riequilibrare il rapporto sinallagmatico.

c. IPOTIZZABILITÀ DELLA DOMANDA DI REDUCTIO AD AEQUITATEM.

Ancora in un’ottica di conservazione dei rapporti giuridici, potrebbe altresì percorrersi una terza ipotesi, ossia verificare l’ammissibilità della domanda di reductio ad aequitatem, mediante la quale la parte contro cui è domandata la risoluzione del contratto può promuovere un negozio di tipo processuale idoneo a ridurre ad equità le condizioni del contratto.

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È dunque pacifico che il conduttore non possa far riferimento arbitrariamente ad un diritto alla sospensione o alla riduzione del canone, ad eccezione dei casi esplicitamente previsti dalla legge e dalla giurisprudenza. Difatti, qualsiasi azione unilaterale, in assenza delle succitate condizioni, sarebbe considerata illegittima e costituirebbe un inadempimento contrattuale.

Nello stesso senso, si significa che l’autonomia contrattuale cristallizzata in un contratto stipulato tra privati non può subire direttamente deroghe, sospensioni o annullamenti da un atto avente forza di legge.

Il Legislatore può eventualmente intervenire sulle norme generali che regolano una fattispecie contrattuale determinata e che integrano le lacune del negozio giuridico volutamente lasciate dalle parti alla disciplina di legge.

È quanto avvenuto con l’introduzione dell’art. 91 del Decreto Cura Italia che prevede, per ogni tipo di contratto o obbligazione (a titolo esemplificativo appalti, forniture di beni e servizi, contratti preliminari etc.), fino a quando durerà il periodo emergenziale, che “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Ai sensi della predetta disposizione di carattere generale, applicabile dunque anche ai contratti di locazione in essere, gli eventuali ritardi nel pagamento del canone locatizio durante la vigenza delle norme emergenziali non dovrebbero costituire o concorrere a determinare il grave inadempimento contrattuale che, ai sensi dell’art. 1455 c.c., è idoneo alla risoluzione del contratto di locazione.

Il conduttore citato in giudizio dal locatore, nell’azione di sfratto o di morosità, potrebbe pertanto avvalersi di tale disciplina eccezionale ed emergenziale per opporsi alla domanda del locatore.

Si precisa tuttavia che la portata così ampia e generica dell’inciso della norma rende imprevedibile l’effettiva interpretazione giurisprudenziale, anche in considerazione del fatto che la valutazione della condotta inadempiente del conduttore è rimessa esplicitamente dalla stessa norma alla discrezionalità del Giudice. Questi avrà il compito di valutare, caso per caso, la meritevolezza o meno del soggetto che invoca l’applicazione dell’“esimente” prevista dell’art. 91 D.L. 18/2020.

Pertanto, al contraente-conduttore converrà verificare preventivamente e prudenzialmente la sussistenza dei requisiti necessari per poter invocare l’applicazione al suo caso della disposizione di cui all’art. 91 del D.L. 18/2020, anche alla luce del complessivo andamento del rapporto contrattuale.

Resta inteso che, per fronteggiare congiuntamente la grave situazione emergenziale attualmente vigente nel nostro Paese, le parti potrebbero altresì concordare sospensioni, riduzioni o posticipazioni del pagamento del canone, anche ricorrendo all’istituto della mediazione ex D.Lgs. 28/2010, avvalendosi semmai in quella sede dell’applicazione dell’art. 91 del Decreto Cura Italia.

Cassazione / Tutela del committente rafforzata nel contratto d’appalto con la doppia garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1669 c.c.

In tema di appalto sussiste la concorrenza delle garanzie previste dagli artt. 1667 e 1669 c.c., in vista del rafforzamento della tutela del committente; ne consegue che, ove a fondamento della domanda siano dedotti difetti della costruzione così gravi da incidere sugli elementi essenziali dell’opera stessa, influendo sulla sua durata e compromettendone la conservazione, il giudice è sempre tenuto, ove le circostanze lo richiedano, a qualificare la domanda, in termini di risarcimento per responsabilità extracontrattuale (art. 1669 c.c.), ovvero contrattuale di adempimento o riduzione del prezzo e risoluzione (art. 1667 c.c.)” (Cass. Civ., sez. II, 25 luglio 2019, n. 20184).

Di recente,la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta ancora una volta in materia di contratto d’appalto privato e, nello specifico, ha approfondito l’argomento relativo alla tutela del committente in presenza di vizi o difetti di costruzione, con riferimento ai due tipi di garanzia previsti dal Codice Civile, agli artt. 1667 e 1669.

Innanzitutto, preme rammentare la disciplina di tali istituti e gli elementi che differenziano l’uno dall’altro. L’art. 1667 c.c., rubricato “Difformità e vizi dell’opera”, stabilisce che, in caso di difformità o vizi dell’opera, il committente può invocare una garanzia nei confronti dell’appaltatore, entro sessanta giorni dalla scoperta, e può intentare l’azione in un termine prescrizionale di due anni dal giorno della consegna dell’opera.

L’art. 1669 c.c., rubricato come “Rovina e difetti di cose immobili”, invece, disciplina una peculiare responsabilità dell’appaltatore se, nel corso di dieci danni dal compimento, l’opera per vizio del suolo o per difetto della costruzione – qualora si tratti di edifici o di altre cose immobili – rovini in tutto o in parte, ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti. In tal caso, la responsabilità dell’appaltatore sussiste e potrà essere azionata purché sia fatta denuncia dal committente o dai suoi aventi causa entro un anno dalla scoperta e purché l’azione giudiziale del committente sia esercitata entro il termine prescrizionale di un anno dalla denuncia.

Ebbene, l’art. 1667 c.c. riguarda l’ipotesi di vizio derivante da difformità rispetto al progetto concordato nel contratto di appalto oppure da esecuzione dell’opera non a regola d’arte. Al contrario, l’art. 1669 c.c. concerne i vizi costruttivi che incidono sugli elementi essenziali di struttura e funzionalità dell’opera stessa, influendo quindi su elementi quali solidità, efficienza e durata, ovvero limitandone notevolmente la fruibilità.

La Suprema Corte, con ordinanza n. 20184 del 25 luglio 2019, ha ribadito il proprio orientamento secondo il quale, in tema di appalto, non sussiste incompatibilità tra le tipologie di responsabilità di cui agli artt. 1667 e 1669 c.c. Per l’effetto, in caso di “gravi difetti” dell’opera, il committente potrà invocare, oltre alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c., anche quella prevista dall’art. 1667 c.c., purché il committente non sia incorso nelle decadenze previste per tale tipologia di responsabilità.

La ratio di tale orientamento è riscontrabile nel fatto che, nonostante la diversità di natura giuridica sottesa alle due fattispecie di responsabilità – l’art. 1667 c.c. sancisce una responsabilità di natura contrattuale, l’art. 1669 c.c. disciplina una responsabilità di natura extracontrattuale – per quanto riguarda la struttura di tali istituti, le relative fattispecie si configurano l’una (art. 1669 c.c.) come sotto-insieme dell’altra (art. 1667 c.c.), con la conseguenza di un rafforzamento delle garanzie a tutela del committente (la cosiddetta “concorrenza di garanzie”).

In definitiva, sarà il giudice di merito che, di volta in volta, dovrà qualificare la domanda giudiziale, analizzando l’entità dei vizi posti a fondamento della stessa e applicando la soluzione più adeguata al caso di specie, nel rispetto del principio di rafforzamento delle garanzie a tutela del committente.

Giurisprudenza / Prova scritta ex art. 634 c.p.c. per l’emissione del decreto ingiuntivo e fatturazione elettronica.

Secondo una recente ed interessante giurisprudenza di merito, le fatture elettroniche generate e trasmesse mediante il Sistema di Interscambio di cui all’articolo 1, commi 211 e 212, L. 244/2007 non soddisfano da sole il requisito della prova scritta di cui all’art. 633, n. 1 c.p.c., necessario ai fini della emissione del decreto ingiuntivo, se non accompagnate dall’estratto autentico notarile richiesto dall’art. 634, co. 2 c.p.c. (Tribunale Vicenza, sez. II, 25/10/2019).

A tal proposito, preme rammentare innanzitutto che, affinché il ricorso per decreto ingiuntivo sia considerato ammissibile, si deve fornire al giudice una cd. prova scritta a fondamento del diritto vantato. In materia l’art. 634, co. 2, c.p.c. stabilisce infatti che “Per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano una attività commerciale e da lavoratori autonomi anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e seguenti del codice civile, purché bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute con l’osservanza delle norme stabilite per tali scritture”.

Pertanto, in caso di crediti derivanti da fatture cartacee, si richiedeva il deposito dell’estratto notarile autentico delle stesse. Ebbene, con l’introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica, si è posto il problema di comprendere se queste ultime siano già di per sé titoli idonei per l’emissione di un decreto ingiuntivo o meno e si sono, di conseguenza, sviluppati diversi orientamenti giurisprudenziali.

Il Tribunale di Vicenza, con la citata sentenza del 25 ottobre 2019, ha sancito il principio secondo cui la fattura elettronica, da sola, non soddisfa il requisito della prova scritta previsto dall’art. 634, co. 2, c.p.c., a meno che non sia accompagnata dal relativo estratto autentico notarile.

La ratio della posizione assunta dal Tribunale vicentino si rinviene nel fatto che la produzione dell’estratto autentico notarile delle scritture contabili garantirebbe il controllo della regolare tenuta di tali scritture, verifica che non può essere effettuata sulla scorta della mera fatturazione elettronica. Poiché, dunque, il Sistema di Interscambio (SDI) – di cui all’art. 1, commi 211 e 212, L. 244/2007 – garantisce solo l’autenticità delle fatture, il ricorrente (per l’ottenimento del provvedimento monitorio) è sempre tenuto a produrre in giudizio l’estratto autenticato delle scritture contabili, ai fini del conseguimento della prova scritta prevista dall’art. 634 c.p.c.

 

 

 

Cassazione / Sulla liquidazione unitaria del danno non patrimoniale (Cass. Civ. Sez. III, 29/03/2019, n. 8755)

Con la sentenza n. 8755 del 29 marzo 2019 la Suprema Corte si è nuovamente pronunciata sulla questione della liquidazione del danno non patrimoniale.

La fattispecie in oggetto riguarda una controversia che ha origine da un sinistro stradale. Il danneggiato conveniva in giudizio la compagnia assicurativa e il proprietario del veicolo danneggiante per ottenere il risarcimento dei danni riportati.

In primo grado,la responsabilità veniva attribuita ad entrambi i conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro e i convenuti venivano condannati in solido al risarcimento, in favore del danneggiato, del danno non patrimoniale subito. In secondo grado, la Corte d’Appello accoglieva l’impugnazione proposta dal danneggiato e, riformando in parte la sentenza del primo Giudice, attribuiva l’intera responsabilità del sinistro all’appellato e condannava questi e la Società di assicurazione all’ulteriore risarcimento del danno in favore dell’appellante.

Avverso la sentenza della Corte di merito, la Compagnia assicurativa proponeva ricorso per cassazione, al quale resisteva il danneggiato con controricorso.

La ricorrente sosteneva che il Giudice di merito non avesse chiarito quali fossero gli elementi di fatto comprovanti la sussistenza del danno morale e che non avesse spiegato le ragioni di diritto sulle quali riconoscere automaticamente l’importo relativo al risarcimento danni.

La Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, in favore del controricorrente.

Il principio di diritto che se ne ricava può essere il seguente:

“La liquidazione finalisticamente unitaria del danno non patrimoniale (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) ha pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore (cui potrebbe assimilarsi, in una suggestiva simmetria legislativa, il danno emergente in guisa di vulnus “interno” arrecato al patrimonio del creditore), quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (danno idealmente omogeneo al cd. “lucro cessante” quale proiezione “esterna” del patrimonio del soggetto)”.

Nella parte motiva, la pronuncia dei Giudici di legittimità recita quanto segue:

“La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle sezioni unite della S.C. (Corte Cost. 233/2003Cass. ss.uu. 26972/2008) deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in peius della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 235/2014, punto 10.1 e ss.; v. anche Corte Cost. 184/1986, 372/1994, 293/1996233/2003) e della Corte di Giustizia (causa C-371/2012 del 23/01/2014) nonché del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 139 C.d.A. come modificati dalla L. 4 agosto 2017, n. 124 art. 1, comma 17 – la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”) ed il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale – deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale) quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

Nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto (Corte Cost. 233/2003) – il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”).

In presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali ed affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

Costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.), mentre una differente ed autonoma valutazione va compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 del C.d.A., alla lett. e).

In assenza di lesione della salute, ogni vulnus arrecato ad un altro valore/interesse costituzionalmente tutelato andrà specularmente valutato e accertato, all’esito di compiuta istruttoria, e in assenza di qualsiasi automatismo (volta che, nelle singole fattispecie concrete, non è impredicabile, pur se non frequente, l’ipotesi dell’accertamento della sola sofferenza morale o della sola modificazione in peius degli aspetti dinamico-relazionali della vita), il medesimo, duplice aspetto, tanto della sofferenza morale, quanto della privazione/diminuzione/modificazione delle attività dinamico-relazioni precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato (in tal senso, già Cass. ss.un. 6572/2006).

Sulla liquidazione unitaria del danno non patrimoniale.

La Suprema Corte ritiene che, nell’attribuzione di una somma risarcitoria al soggetto danneggiato, il Giudice di merito deve tener conto del pregiudizio complessivamente subìto sia sotto il profilo del danno morale, relativo all’aspetto interiore del danno sofferto, sia sotto il profilo del danno dinamico-relazionale, riguardante le conseguenze in senso peggiorativo di tutti gli ambiti relazionali di vita esterni del soggetto.

In presenza di un danno permanente alla salute, la misura del risarcimento può essere aumentata in base al danno dinamico-relazionale verificatosi, ma solamente nel caso di ripercussioni dannose eccezionali e anomale. Pertanto, in questi specifici casi, non si crea duplicazione risarcitoria nel momento in cui si attribuiscono, congiuntamente, una somma di danaro a titolo di risarcimento del danno biologico e una somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi subiti dal danneggiato, in relazione alla sua personalità, alle sue attività quotidiane e alle sue capacità relazionali.

Al contrario, in assenza di un danno permanente alla salute, dovrà esser compiuta una precisa valutazione sulla lesione dell’interesse costituzionalmente garantito. Infatti, dal caso analizzato nella sentenza in esame, emerge che, in tali situazioni, il Giudice deve effettuare una valutazione che tenga conto sia del danno in re ipsa, sia del suo effetto modificativo in peius della quotidianità del danneggiato. Si evince, dunque, che tale valutazione dovrà essere oggetto di un procedimento approfondito al fine di evitare l’applicazione di automatismi risarcitori.

In conclusione, la giurisprudenza di Cassazione ha ribadito come la liquidazione della componente dinamico-relazionale del danno alla salute avvenga attraverso una personalizzazione del danno biologico e non mediante la rischiosa duplicazione di poste risarcitorie.

L’azione di regolamento di confini

  1. Inquadramento sistematico.

Le azioni a difesa del diritto di proprietà si definiscono petitorie in quanto mirano ad accertare ed affermare la titolarità del diritto di proprietà contro chi la contesti direttamente o indirettamente (vantando diritti reali limitati sul bene in questione).

  • Azione di rivendica – art. 948 c.c.
  • Azione negatoria – art. 949 c.c.
  • Azione di regolamento di confini – art. 950 c.c.
  • Azione di apposizione di termini – art. 951 c.c.
  1. L’azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.).

L’azione di regolamento di confini è l’azione volta alla definizione giudiziale di un confine incerto (art. 950 c.c.).

L’azione rientra nell’ambito delle azioni reali e, in particolare, nell’ambito delle azioni a difesa della proprietà. L’azione tutela infatti un interesse del proprietario, cioè l’interesse alla certa delimitazione del suo fondo.

Legittimati attivi e passivi dell’azione sono i proprietari dei fondi confinanti.

In dottrina, l’azione di regolamento di confini è stata definita un relitto storico e una “sottospecie” dell’azione di rivendicazione. Rispetto a questa azione essa conserva tuttavia una propria autonomia, in quanto non è diretta al recupero del bene ma alla eliminazione di una particolare situazione d’incertezza (l’incertezza del confine).

Quindi, si distingue dalla rivendica innanzitutto per l’oggetto: essa mira a risolvere una lite sulla sola estensione del diritto di proprietà (che non è posto in discussione), mentre la rivendica presuppone una contestazione sul titolo del diritto stesso.

Essa è azione di “accertamento” e non muta natura neppure allorché l’attore richieda contestualmente anche il rilascio delle zone di terreno possedute dal vicino indebitamente (questa è una conseguenza naturale dell’azione).

Essa si distingue anche rispetto all’azione di mero accertamento della proprietà in quanto tende ad eliminare un’incertezza che non concerne la titolarità del diritto di proprietà ma i limiti del fondo che ne è oggetto.

Secondo una formula dottrinaria, recepita dalla giurisprudenza, l’azione di regolamento di confini non presuppone un “conflitto di titoli” ma un “conflitto di fondi”, poiché non vi è controversia sui titoli di proprietà delle parti ma sui confini che in base a tali titoli dividono le rispettive proprietà.

Mentre l’azione di rivendica presuppone un conflitto di titoli, determinato dal convenuto che nega la proprietà dell’attore contrapponendo al titolo da lui vantato il suo possesso della cosa ovvero un proprio diverso ed incompatibile titolo di acquisto, nella azione di regolamento di confini i titoli di proprietà non sono controversi e la contestazione attiene alla delimitazione dei rispettivi fondi (conflitto tra fondi) per l’incertezza dei confini,  oggettiva (derivante dalla promiscuità del possesso nella zona confinaria) o soggettiva (provocata dall’assunto attoreo di non corrispondenza del confine apparente con quello reale).

Il regolamento di confine può aver luogo anche mediante un accordo dei proprietari interessati, inquadrabile tra i negozi d’accertamento. L’accertamento convenzionale del confine non ha efficacia costitutiva ma ha valore di prova tra le parti.

  1. L’incertezza sul confine.

L’azione di regolamento dei confini presuppone un’incertezza oggettiva e soggettiva sul confine del fondo, ossia un’incertezza derivante dalla mancanza di un limite apparente o un’incertezza soggettiva, derivante dalla contestazione del limite apparente.

Una tesi, che ha trovato credito anche in dottrina recente, ammette l’azione di regolamento di confini solo in presenza di un’incertezza oggettiva del confine, posseduto promiscuamente dai confinanti.

La giurisprudenza si è però decisamente orientata a ravvisare gli estremi dell’azione di regolamento di confini anche quando sussista un’incertezza soggettiva sul confine, a prescindere da una situazione di possesso promiscuo.

In aderenza a questo orientamento l’azione rientra nello schema del regolamento di confini anche quando il proprietario lamenti l’usurpazione di una striscia di terreno confinante, sempreché il convenuto non contesti il titolo di acquisto dell’attore ma opponga un titolo di acquisto poziore.

Qui l’azione di regolamento dà luogo ad un conflitto di titoli, ma l’orientamento è da approvare perché l’azione è pur sempre diretta a definire un confine incerto. Va anche considerato che assegnare al confinante l’onere probatorio che grava sul rivendicante, ossia l’onere di una rigorosa prova della proprietà risalente ad un acquisto originario, significherebbe metterlo in una posizione di squilibrio processuale non giustificata dalle ragioni di tutela processuale del convenuto.

  1. L’oggetto dell’azione.

Oggetto dell’azione è la fissazione giudiziale del confine tra fondi contigui. Si deduce pertanto che la sentenza ha natura ‘dichiarativa e ricognitiva’.

Oggetto della domanda può anche essere la condanna del vicino a restituire all’attore la striscia di terreno risultante di sua proprietà a seguito della fissazione della linea di confine.

La presente azione ha la connotazione di un’azione reale recuperatoria, da cui deriva, oltre la demarcazione del confine tra due fondi, anche il rilascio di aree occupate dal vicino che non ne è proprietario, essendo il rilascio di tali porzioni possedute dal confinante conseguenza dell’istanza principale di esatta determinazione del confine. Pertanto, nell’ipotesi in cui il fondo oggetto della sentenza di rilascio ha cessato di essere nella disponibilità del convenuto, è applicabile, a causa del carattere reale e recuperatorio dell’azione, la particolare norma di cui all’art. 948, co. 1, c.c., ipotesi che legittima la richiesta di pagamento del controvalore del bene usurpato.

Si reputa che in tal caso la restituzione sia solo un effetto secondario discendente dall’accoglimento della domanda principale. Occorre per altro che la restituzione abbia costituito oggetto della domanda, la cui proposizione non contiene implicitamente la domanda di rilascio della porzione di fondo eventualmente risultante occupata dal convenuto.

  1. L’onere probatorio. La cd. duplicità dell’azione.

L’autonomia dell’azione rispetto alla rivendicazione rileva anche sul piano probatorio. Fondamento dell’azione è pur sempre il diritto di proprietà, e di questo diritto l’attore deve dare la prova.

Non essendo tuttavia oggetto di contestazione la titolarità del diritto, ma solo i confini dell’immobile, è sufficiente per l’attore provare un valido titolo di acquisto, mentre in ordine all’ubicazione dei confini può essere addotta qualsiasi prova.

La norma sull’onere probatorio gravante sull’attore si ritiene che trovi una deroga in ragione della duplicità dell’azione di regolamento di confini. L’azione sarebbe duplice nel senso che ciascuna parte avrebbe il medesimo interesse alla definizione dei confini. Conseguentemente, si afferma, su ciascuna grava il medesimo onere probatorio e il giudice è svincolato dalla regola che gli impone di assolvere il convenuto se l’attore non prova il proprio assunto.

Al riguardo va però obiettato che ciascuna parte ha l’interesse all’accertamento ad essa più favorevole, e che il convenuto anziché assumere una linea di difesa adesiva può controbattere le ragioni dell’attore (specie se questi lamenti l’usurpazione di una striscia del fondo).

La tesi della duplicità dell’azione implica che in caso di totale inerzia delle parti il giudice dovrebbe provvedere d’ufficio ad accertare la linea di confine tra i fondi delle parti.

Ma una tale conclusione è stata smentita dalla stessa giurisprudenza, la quale ha riconosciuto che il giudice deve attenersi al principio della disponibilità delle prove pur avendo ampia facoltà di scegliere gli elementi decisivi per il suo convincimento.

Il codice prevede anche che in mancanza di altri elementi il giudice “si attiene al confine delineato dalle mappe catastali” (art. 950 c.c.). Questa norma assegna ai dati catastali un valore, per quanto sussidiario, che non viene loro riconosciuto nell’azione di rivendicazione. Neppure essa attribuisce tuttavia al giudizio carattere inquisitorio. L’attore che non disponga di altre prove deve quindi produrre i documenti catastali occorrenti per l’accertamento giudiziale dei confini. In mancanza, la sua domanda dev’essere respinta.