Professionisti / Responsabilità dei tecnici certificatori energetici

LA CERTIFICAZIONE “APE”

Alla luce delle norme attualmente vigenti in materia, l’Attestato di Prestazione Energetica (cd. APE) può essere redatto esclusivamente da un tecnico abilitato, il cd. certificatore energetico (ai sensi del D. Lgs. 192/05).

In tale ruolo possono operare varie figure professionali, come l’architetto, l’ingegnere, il geometra, il perito tecnico, ecc. ma per ciascuna di esse è indispensabile essere in possesso di titoli specifici, oltre ad essere abilitato alla professione e quindi essere iscritto al proprio Ordine o Collegio professionale di riferimento. In caso di assenza di alcune delle competenze specifiche richieste, il certificatore dovrà essere affiancato da un altro tecnico abilitato nella redazione del certificato energetico.

La necessità di munirsi della certificazione energetica è piuttosto frequente. Ad esempio:

  • per gli atti notarili di compravendita;
  • per i contratti d’affitto;
  • per l’accesso alle detrazioni fiscali previste per gli interventi di efficientamento energetico;
  • per la pubblicità degli annunci immobiliari;
  • per la possibilità di ottenere dal GSE gli incentivi statali sull’energia prodotta dagli impianti fotovoltaici.

Non solo. L’APE è un certificato obbligatorio per gli edifici di nuova costruzione; gli edifici sottoposti a demolizione e ricostruzione; gli edifici sottoposti a lavori di ristrutturazione importante (in genere, per una ristrutturazione di più del 25% dell’intero edificio).

Le sanzioni per chi non presenta l’APE negli atti in cui la certificazione risulta obbligatoria sono particolarmente onerose (ad esempio, il proprietario che non alleghi l’Attestato di Prestazione Energetica al contratto di compravendita rischia il pagamento di una sanzione tra un minimo di 3.000 ed un massimo di 18.000 euro).

***

Ora, venendo alle responsabilità del professionista, laddove il certificatore energetico emetta una certificazione senza rispettare i criteri delle normative vigenti, attribuendo una classe energetica errata oppure dichiarando informazioni non veritiere, può andare incontro a diverse tipologie di responsabilità:

  • responsabilità amministrativa. Se il tecnico rilascia una certificazione energetica non veritiera, incompleta o non conforme allo stato dei luoghi rischia una multa pari al 70% della sua parcella, calcolata secondo la tariffa professionale;
  • responsabilità deontologica. Parimenti, qualora il certificatore incorra in una condotta negligente o, peggio, ponga in essere un abuso consapevole, si accolla il rischio di essere sottoposto a procedimento disciplinare e di ricevere l’irrogazione di una delle sanzioni disciplinari previste dall’ordinamento professionale (fino alla sospensione dall’esercizio della professione) da parte del Consiglio di disciplina dell’Ordine di appartenenza;
  • responsabilità penale. Il professionista certificatore energetico che rilasci un Attestato di Prestazione Energetica non veritiero o comunque infedele rischia di incorrere anche nella responsabilità penale di cui all’art. 481 c.p. In particolare, la predetta norma al co. 1 prevede che: “Chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 51 a euro 516”. Si pensi al caso in cui il proprietario di un immobile colluda con il certificatore energetico affinché da questi venga attribuita all’immobile una classe energetica “più alta” ed in sostanza inveritiera. In tal caso, l’acquirente risulta chiaramente danneggiato dalla falsa certificazione energetica per il fatto che consumerà molto di più (per il riscaldamento e per il raffreddamento dell’immobile acquistato) rispetto a quanto appreso attraverso la certificazione. Si configurerebbe, in tal caso, una grave responsabilità penale sia del certificatore sia di chi ha commissionato la certificazione (costruttore o venditore che sia), che può essere sussunta anche nella fattispecie penale della truffa;
  • responsabilità civile. Il tecnico certificatore che emetta un Attestato di Prestazione Energetica falso, non corretto o comunque errato a causa di negligenza, imperizia o errore di calcolo può essere chiamato a risarcire i danni procurati ai terzi sia involontariamente che dolosamente. In particolare, il tecnico che (anche per mero errore) attribuisca ad un immobile una classe energetica superiore a quella reale espone il venditore al rischio di vedersi comminare una sanzione in via amministrativa, oltre che a subire un’azione dell’acquirente finalizzata alla risoluzione del contratto (anche per aliud pro alio, ossia per il caso in cui venga consegnato un bene completamente diverso da quello pattuito) o, quanto meno, alla riduzione del prezzo ed al risarcimento del danno. In tale circostanza, l’acquirente non è tutelato solo con le azioni per vizi/difetti del bene compravenduto, ma anche in base ad un’ordinaria azione di risoluzione contrattuale (a prescrizione decennale), non trovando applicazione l’art. 1495 c.c. ed i brevi termini di prescrizione e decadenza in esso previsti. Tutte conseguenze estremamente negative per il venditore che, a quel punto, potrà rivalersi solo sul tecnico certificatore, incorso nel grave errore o mera imprecisione che sia.

Senza contare anche i rischi del caso opposto. Ossia quello in cui l’eccessiva “prudenza” del certificatore energetico potrà essere addebitata dal venditore al tecnico abilitato che certifichi una classe energetica troppo “bassa”, con conseguente svilimento del prezzo di vendita dell’immobile (e, per l’effetto, conseguente mancato guadagno proprio a causa dell’attribuzione di una classe più bassa rispetto a quella che sarebbe spettata all’immobile).

***

Fra gli obblighi di cui è onerato il certificatore energetico vi è anche quello di assoluta estraneità ed indipendenza nonché imparzialità di giudizio. Questa è una delle differenze fondamentali che distinguono la redazione dell’APE da quella dell’AQE (Attestazione di Qualificazione Energetica). Infatti, mentre l’AQE può essere redatto anche da un tecnico coinvolto nella progettazione e realizzazione dell’edificio (ad esempio, il progettista o il direttore dei lavori), il certificatore energetico che redige l’APE deve essere un soggetto del tutto “terzo”, ovverosia egli non può avere conflitti di interesse con il proprietario, con il progettista o il direttore dei lavori e con i produttori dei materiali o dei componenti incorporati nell’edificio.

Per questo motivo, il certificatore energetico dovrà allegare all’APE una vera e propria “Dichiarazione di indipendenza”, ovvero una dichiarazione espressa (effettuata ai sensi degli artt. 359 e 481 del Codice Penale) in cui attesta l’assenza di conflitto di interessi, espressa attraverso il non coinvolgimento nel processo di progettazione e realizzazione dell’edificio da certificare, nonché l’assenza di rapporti di parentela fino al quarto grado con il committente.

LA CERTIFICAZIONE “AQE”.

L’AQE, che viene rilasciato dal costruttore dell’edificio ed inviato al Comune, in allegato al resto della documentazione per il rilascio della dichiarazione di fine lavori, non ha la finalità di individuare e specificare la classe energetica dell’edificio, oggi non è più molto utilizzato rispetto al passato, atteso che esso è stato adottato come sostituto temporaneo dell’Attestato di Prestazione Energetica per il caso delle Regioni che non avevano ancora emesso i decreti attuativi della nuova certificazione energetica.

L’AQE (ossia, Attestato di Qualificazione Energetica), come già premesso, differisce dall’APE proprio perché può essere redatto dal progettista dell’edificio o dal direttore dei lavori ovvero anche da un qualunque altro tecnico abilitato anche se abbia già ricoperto un ruolo nella progettazione e nella realizzazione dell’immobile stesso. Al contrario, il certificatore energetico che redige l’APE deve essere un soggetto del tutto estraneo alla realizzazione dell’immobile.

LA CERTIFICAZIONE PER L’ECOBONUS.

L’art. 119 del D.L. n. 34 del 2020 (cd. Decreto Rilancio) regolamenta il cd. Ecobonus 110%. In materia, un aspetto rilevante è quello legato alla responsabilità dei tecnici certificatori che eseguiranno i lavori. Infatti, ai fini della validità del cd. Ecobonus del 110%, è necessario che ad eseguire i lavori siano tecnici abilitati, ai quali richiedere sia la documentazione sul rischio sismico, sia gli Attestati di Prestazione Energetica, certificanti che l’intervento in questione abbia apportato un miglioramento di almeno due classi energetiche. L’APE, segnatamente, è un documento non solo prezioso ma persino necessario per poter usufruire del Superbonus 110%, poiché l’attestato (da produrre prima e dopo la realizzazione degli interventi agevolati) serve a dimostrare il miglioramento della prestazione energetica dell’edificio, ottenuto a seguito dei lavori incentivati (per non meno di due classi energetiche o eventuale conseguimento di classe più elevata).

Circa la regolarità delle dichiarazioni energetiche, la norma di cui art. 119, co. 14 del D.L. Rilancio descrive le conseguenze delle asseverazioni “infedeli”.

In particolare è opportuno rammentare che, nel caso di emissione da parte del tecnico abilitato di certificazione irregolare o abusiva, il richiedente il bonus (ossia, il committente) incorre nella decadenza dell’agevolazione fiscale prevista nell’Ecobonus del 110%.

Mentre per il professionista (scorretto o distratto) che rilasci attestazioni e/o asseverazioni infedeli in questa materia sono previste sanzioni amministrative severe. Ossia, è previsto che i tecnici che rilascino asseverazioni false o non conformi alla realtà possano ricevere, per ogni attestazione falsa e non conforme, una sanzione pecuniaria che va da un minimo di 2.000,00 euro a un massimo di 15.000,00 euro.

Non solo. Al fine di tutelare i proprietari richiedenti l’accesso all’Ecobonus, è significativa l’introduzione dell’obbligo per i tecnici certificatori di stipulare una polizza assicurativa per la responsabilità civile, con un massimale di almeno 500.000,00 euro. Più nel dettaglio, si sottolinea che tale polizza assicurativa deve essere sottoscritta con un massimale coerente con il numero delle attestazioni che verranno rilasciate e con il loro valore (comunque non inferiore a € 500.000,00). Questo per garantire ai propri clienti (oltre che al bilancio dello Stato) il risarcimento dei danni eventualmente provocati dall’attività prestata.

Si evidenzia, inoltre, che la responsabilità dei tecnici in materia di Ecobonus del 110% riguarda sia la redazione, in forma di dichiarazione asseverata, dell’Attestato di Prestazione Energetica che dell’attestato relativo al rischio sismico. Per quel che riguarda l’efficienza energetica, una volta redatta, l’attestazione deve essere inviata all’ENEA tramite i canali telematici abilitati. Per l’attestazione sul rischio sismico, invece, è necessario che i tecnici rilascino l’asseverazione conforme alle Linee guida in materia formulate dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Infine, va ricordato come la responsabilità dei tecnici riguardi anche la cessione del credito e lo sconto in fattura. Infatti, i tecnici avranno l’obbligo di verificare ed attestare la congruità delle spese in relazione ai lavori eseguiti ai fini dell’ottenimento dell’agevolazione fiscale.

***

Alla stregua della pur rapida osservazione svolta del quadro delle molteplici e variegate prestazioni richieste alla categoria dei tecnici certificatori energetici, si può rilevare e concludere che altrettanto ampio ed impegnativo è lo spettro delle responsabilità professionali loro ascrivibili.

Per l’effetto, appare tanto utile quanto necessario per il certificatore energetico apporre la massima attenzione operativa – sia nella fase della preventivazione che in quella della esecuzione della prestazione – non tanto al tempo che si impiega nella redazione materiale del certificato quanto piuttosto alla scrupolosa effettuazione del sopralluogo come alla puntuale rilevazione delle misure richieste.

Solo in questo modo si consegue il migliore risultato dovuto al committente (il rilascio di un attestato completo, corretto ed incontestabile) oltre che l’incremento della considerazione e dell’onorabilità, presso i terzi, della categoria tutta dei tecnici certificatori energetici.

Lavoro e previdenza / Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e incentivazione all’esodo

La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è per lo più associata all’erogazione di emolumenti da parte del datore di lavoro finalizzata ad acquisire il consenso del lavoratore alla rinuncia della prosecuzione del rapporto di lavoro.
Infatti, il datore di lavoro sovente favorisce l’uscita dei dipendenti attraverso l’erogazione di importi a titolo di incentivo all’esodo.
Con riguardo all’entità della proposta economica incentivante, l’impresa datrice di lavoro ha libertà di azione e non è vincolata da legge o contrattazione collettiva.

Tuttavia, sarà buona norma adottare parametri che garantiscano un trattamento quantomeno equo tra i lavoratori, orientando, quindi, la contrattazione individuale lungo direttive che consentano di entrare nell’ottica del lavoratore per proporgli un bilanciamento tra quanto perde e come viene ristorato economicamente.
Un orientamento prudente suggerisce alla parte datoriale che l’ammontare minimo dell’incentivazione all’esodo possa essere individuato in un importo pari almeno all’indennità sostitutiva del preavviso per licenziamento prevista dal contratto collettivo.

Mentre, il criterio generalmente utilizzato al fine di valutare l’importo massimo dell’offerta è il rischio economico conseguente ad un’eventuale soccombenza nel giudizio instaurato per l’accertamento della legittimità in caso di licenziamento per motivo economico. Il cd. “rischio causa”, incrementato dell’indennità sostitutiva del preavviso, costituisce una valida esemplificazione del massimo che il lavoratore potrebbe ottenere qualora non  volesse in alcun modo raggiungere l’accordo.

Con particolare riferimento alle risoluzioni consensuali della categoria dei dirigenti, invece, appare necessario prendere in esame la particolare disciplina sanzionatoria prevista dalla loro contrattazione collettiva in caso di licenziamento ingiustificato.

A tutto questo si aggiungano come fattori da considerare come possibili rischi di causa i costi connessi ad un possibile licenziamento del lavoratore (contribuzione INPS su tale indennità sostitutiva del preavviso, ticket di licenziamento, spese legali, ecc.).
Infatti, conoscere le conseguenze economiche complessive di un licenziamento illegittimo può essere utile per stimare il possibile risparmio per l’azienda nel giungere ad un accordo di risoluzione consensuale e di conseguenza fissare criteri (anzianità, carichi familiari, prossimità alla pensione) di determinazione degli incentivi all’esodo.

Una volta identificato e concordato con il lavoratore l’ammontare offerto per la risoluzione consensuale, di prassi viene redatto un accordo, volto a rendere definitiva l’intesa, nel quale vengono inserite specifiche clausole finalizzate a mettere al riparo il datore di lavoro da possibili rivendicazioni connesse al rapporto di lavoro in fase conclusionale.

Nello specifico, mediante tali clausole, il lavoratore rinuncia ad ogni suo diritto, pretesa ed azione legale in ordine al pregresso rapporto di lavoro ab origine, alla sua esecuzione ed alla risoluzione del medesimo a fronte dell’erogazione di un importo a titolo transattivo.

Si rammenta che l’istituto della rinuncia costituisce una dichiarazione di volontà con la quale una parte dismette abdicativamente un proprio diritto, scegliendo di non goderne più. La rinuncia farà riferimento ad uno specifico oggetto e deve contenere la chiara rappresentazione dei diritti che vengono dismessi: se riferita ad ogni imprecisato diritto maturato nel corso del rapporto di lavoro, così come la rinuncia preventiva a futuri, eventuali e non precisati diritti, sarà radicalmente nulla. Invece, mediante la transazione, le parti facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già iniziata o prevengono una lite che potrebbe insorgere tra di loro.

L’accordo così perfezionato, infine, è soggetto all’obbligo di formalizzazione in una cd. sede protetta: infatti, le rinunce e/o le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide, salvo nei casi in cui siano contenute nei verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale, giudiziale o avanti la commissione di conciliazione istituita presso l’Ispettorato del lavoro o presso le sedi di certificazione.

In generale, si può affermare che le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro nonché quelle la cui erogazione trae origine proprio dalla predetta cessazione, fatta salva l’indennità sostitutiva del preavviso, tendenzialmente sono esenti da contribuzione.

Rientrano in tale fattispecie anche le somme erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, in eccedenza alle normali competenze comunque spettanti ed aventi lo scopo di indurre il lavoratore ad anticipare la risoluzione rispetto alla sua normale scadenza.

Una simile previsione, finalizzata ad evitare effetti distorsivi sulla base imponibile e pensionabile, ricomprende tutte quelle forme di erogazione prive di uno specifico titolo retributivo, corrisposte in sede di risoluzione del rapporto e la cui funzione, desumibile dalla volontà delle parti, sia riconducibile a quella di agevolare lo scioglimento del rapporto.

Al contrario, le somme corrisposte a titolo transattivo o di rinuncia ad alcuni diritti, trovando la propria causa nel rapporto di lavoro e non essendo ricomprese tra le fattispecie di esclusione, sono soggette anche a contribuzione previdenziale.

Occorre, infatti, tener conto sia del principio secondo il quale tutto ciò che il lavoratore riceve, in natura o in denaro, dal datore di lavoro in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro rientra nell’ampio concetto di “retribuzione imponibile” ai fini contributivi sia della assoluta indisponibilità, da parte dell’autonomia privata, dei profili contributivi che l’ordinamento collega al rapporto di lavoro.

Infine, si ritenga che, dal punto di vista fiscale, dovrà essere assoggettato a tassazione separata, con l’aliquota del TFR, sia l’incentivo all’esodo in quanto costituisce una somma percepita da parte del lavoratore una tantum in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro dipendente, sia gli importi transattivi erogati in sede di risoluzione consensuale.

Lavoro e previdenza / Introduzione alla “risoluzione consensuale” del rapporto di lavoro

Il rapporto di lavoro cessa notoriamente su decisione unilaterale di una delle parti contraenti (licenziamento del datore di lavoro o dimissioni del lavoratore), ma può cessare per l’effetto dell’espressione di un mutuo consenso con cui le due parti del rapporto convengano e sanciscano che è venuta meno la reciproca convenienza alla prosecuzione del rapporto contrattuale.

Tale cessazione del rapporto costituisce il tertium genus,  meglio nota come “risoluzione consensuale” del rapporto.

L’istituto della cd. risoluzione consensuale consente alle parti che hanno posto in essere un contratto di lavoro di risolvere il rapporto per mutuo consenso, liberandosi dai vincoli precedentemente ratificati.
In particolare, tale situazione si realizza nel momento in cui il datore di lavoro ed il lavoratore di comune intento e reciprocamente, manifestano e comunicano, in modo chiaro e certo, la loro volontà di porre fine al rapporto di lavoro.
Tale modalità di risoluzione del rapporto di lavoro si segnala per il suo carattere facoltativo, negoziale e consensuale: entrambe le parti riconoscono che è venuta meno la reciproca convenienza alla prosecuzione del rapporto contrattuale e decidono di porre fine allo stesso.
Essa si distingue, pertanto, dalle dimissioni spontanee, in cui la volontà di recedere dal rapporto è unilaterale da parte del lavoratore, o dal licenziamento, nel quale l’interruzione deriva esclusivamente dalla volontà del datore di lavoro.
Alla stregua di quanto sopra, alla cessazione del rapporto per risoluzione consensuale non si applicano né le norme a tutela del lavoratore previste per  i licenziamenti, né quelle previste per le dimissioni.
L’accordo di risoluzione consensuale è immediatamente efficace e pone termine al rapporto istantaneamente con decorrenza alla data concordata tra le parti e non vi è alcun obbligo del preavviso o di pagamento di correlate indennità sostitutive.
Non vi è, altresì, diritto di precedenza nelle riassunzioni presso la medesima azienda nei 6 mesi successivi la cessazione, in quanto trattasi di un istituto tipico delle cessazioni per licenziamento.
Seppur non vi sia l’obbligo della forma scritta, è buona norma, al fine di evitare controversie, formalizzare la risoluzione mediante la sottoscrizione di un accordo individuale, da siglarsi nella cd. sede protetta qualora esso contenga rinunce e transazioni.
Va detto infatti che, nella maggior parte dei casi, le risoluzioni consensuali sono “incentivate” da parte dell’azienda: il consenso espresso dal dipendente a rinunciare alla prosecuzione del rapporto di lavoro è, quindi, prestato dietro corresponsione di emolumenti a titolo di “incentivo all’esodo”.

Obblighi di comunicazione telematica.

Il Legislatore, al fine di combattere il fenomeno delle dimissioni cd. in bianco, oltre ad intervenire sulla disciplina delle dimissioni, ha modificato, dal 12 marzo 2016, anche le modalità di presentazione della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, prevedendo un’apposita procedura di convalida con modalità atte a garantire la genuinità della manifestazione della volontà del lavoratore.
in particolare, al fine di validare l’effettiva volontà del lavoratore a risolvere il rapporto, le risoluzioni consensuali devono essere trasmesse “telematicamente”, a pena di inefficacia, utilizzando specifici moduli previsti dal Ministero del lavoro.
L’invio telematico può essere curato direttamente dal lavoratore sul portale del Ministero o per il tramite di patronati, organizzazioni sindacali, consulenti del lavoro e presso le sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro, degli enti bilaterali e delle commissioni di certificazione.
In caso di ripensamento, entro 7 giorni dalla data di trasmissione del modulo, è sempre possibile revocare il recesso (le dimissioni o la risoluzione consensuale) con le medesime modalità.

Giova precisare che l’obbligo della procedura di trasmissione telematica (per le dimissioni come per la risoluzione consensuale) non si applica:

  • nelle ipotesi previste dall’art. 55, co. 4, D. Lgs. n. 151/2001 (gravidanza, maternità e paternità);
  • al lavoro domestico, ai rapporti di lavoro marittimo ed ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche;
  • nel caso in cui la risoluzione consensuale intervenga in sede protetta (art. 2113, c. 4, c.c.) o avanti alle commissioni di certificazione (art. 76, D.lgs. n. 276/2003);
  • in caso di recesso durante il periodo di prova.

Oltre a ciò, per quanto attiene agli adempimenti amministrativi che gravano in capo al datore di lavoro, questi è comunque tenuto a comunicare all’ANPAL la cessazione del rapporto di lavoro, anche nella forma della risoluzione consensuale, entro i 5 giorni successivi dalla data di cessazione del rapporto.
Tale comunicazione obbligatoria per il datore di lavoro rimarrà tuttavia inefficace se non è stata preceduta dalla trasmissione telematica obbligatoria della comunicazione di cessazione del rapporto da parte del lavoratore.

Obblighi di convalida.

Sono soggette a convalida obbligatoria presso l’Ispettorato del lavoro e non alla semplice presentazione telematica, le risoluzioni consensuali presentate:

  • dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza;
  • dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi 3 mesi di vita del bambino;
  • dalla lavoratrice o dal lavoratore nei primi 3 anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento.

L’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro è condizionata a tale convalida obbligatoria.
Si rammenta anche che, a seguito delle misure di contenimento del contagio da COVID-2019 ed al fine di consentire la convalida a distanza delle risoluzioni consensuali effettuate da lavoratrici madri e lavoratori padri, l’Ispettorato del Lavoro ha predisposto una nuova modulistica utilizzabile solo per la dura del periodo emergenziale.
In questa fase, infatti, il colloquio diretto con il funzionario dell’INL è sostituito da una dichiarazione resa mediante la compilazione e sottoscrizione di tale modulo che deve essere trasmesso al competente Ufficio mediante posta elettronica, unitamente alla copia del documento di riconoscimento e della lettera di dimissioni/risoluzione consensuale datata e firmata.

Preme rammentare anche che la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro della lavoratrice in conseguenza del matrimonio è soggetta ad obbligo di convalida che, però, in questo caso si aggiunge al necessario espletamento della procedura di trasmissione telematica.
Va da sé che le risoluzioni consensuali intervenute nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio ad un anno dopo la celebrazione delle nozze sono nulle, salvo che sia confermate dalla lavoratrice presso l’Ispettorato territoriale del lavoro entro un mese.
La nullità della risoluzione comporta la permanenza del rapporto di lavoro e il diritto della lavoratrice di richiedere in ogni momento la riammissione in servizio.

Professionisti / Geometri: rischi e “castighi” per il geometra scorretto

Con il presente commento – che fa seguito al precedente riguardante il Titolo III (Della prestazione) del Codice di Deontologia Professionale dei Geometri – concludiamo l’analisi del testo con l’esame del Titolo IV (Sanzioni disciplinari).

È di palmare evidenza che le ultime norme del Codice sono dedicate alla materia prettamente disciplinare, ossia alle misure sanzionatorie che l’ordinamento professionale ha approntato sia in funzione di deterrente contro i comportamenti non deontologicamente corretti, che in funzione di punizione da irrogare nel caso di accertata violazione dei canoni della deontologia professionale.

Vale la pena rammentare che la deontologia è rappresentata da quel complesso di regole di condotta che devono essere rispettate nell’ambito dello svolgimento dell’attività professionale, necessario a tutelare la professione stessa, a proteggere i consumatori e tutti coloro che entrano in contatto con il professionista. La deontologia “professionale” può definirsi come l’insieme dei principi e delle regole di condotta che un determinato gruppo professionale si autoimpone e che deve osservare nell’esercizio della sua attività professionale.

La deontologia deriva direttamente dall’ordinamento giuridico professionale dal quale riceve il fondamentale avallo normativo ed è finalizzata a regolamentare i comportamenti ed a salvaguardare la professionalità dei suoi iscritti.

Le norme che disciplinano la deontologia di una professione non sono espressione di istanze corporative ma, al contrario, strumento del pubblico interesse al corretto esercizio della professione. Pertanto, le norme che presiedono alla deontologia della categoria professionale dei geometri si coniugano, quindi, con la tutela del pubblico interesse ad un idoneo, qualificato e corretto esercizio della professione e sono finalizzate al corretto esercizio della professione per la tutela dell’interesse pubblico.
Sia sufficiente richiamare una recentissima conferma fornita dalla Suprema Corte di Cassazione: “L’esercizio del potere disciplinare è previsto, quindi, a tutela di un interesse pubblicistico, come tale non rientrante nella disponibilità delle parti, rimanendo perciò intatto, per l’organo disciplinare, il potere di accertamento della responsabilità del professionista per gli illeciti a lui legittimamente contestati, anche nel caso in cui sia intervenuta transazione, nel corso del procedimento, tra l’incolpato e il suo assistito” (Cass., sez. un., 27 ottobre 2020, n. 23593).

Come abbiamo ricordato anche nei precedenti interventi, le norme di deontologia professionale dei geometri sono “contenute” nel Codice Deontologico, il documento principe che racchiude l’insieme delle norme deontologiche, ossia le regole di condotta che un gruppo professionale deve necessariamente rispettare nell’esercizio della propria professione.
Il Codice Deontologico, configurandosi come una emanazione dell’etica e della morale di una determinata categoria professionale in un definito periodo storico, è soggetto, come l’etica e la morale, a cambiamenti e modificazioni nel corso del tempo a seconda dell’evolversi del contesto culturale, sociale ed economico.
Gli organismi professionali – tra cui quello dei geometri – si sono dati, nel tempo, regole comportamentali valide per tutti gli appartenenti a quella categoria professionale apportatrici di una responsabilità disciplinare, la cui trasgressione implica l’irrogazione di sanzioni disciplinari.

Titolo V del codice: tipologie delle sanzioni disciplinari

Il Titolo IV del Codice in esame comprende un solo articolo (il 27), che prevede quanto segue: “Ferme restando le sanzioni amministrative, civili e penali previste dalla normativa vigente, per la violazione delle prescrizioni contenute nel presente codice deontologico sono applicabili le sanzioni disciplinari previste dall’articolo 11 del Regio Decreto 11 febbraio 1929 n. 274 e successive modificazioni ed integrazioni. Tali sanzioni, da applicare in misura proporzionale alla gravità della sanzione commessa, sono: a) l’avvertimento; b) la censura; c) la sospensione; d) la cancellazione.

Per completezza di esposizione, ricorderemo a questo punto che l’art. 11, R.D. 11 febbraio 1929 n. 274, prevedeva e prevede che “Le sanzioni disciplinari che il [collegio di disciplina] può applicare, per gli abusi e le mancanze che gli iscritti abbiano commesso nell’esercizio della professione, sono: l’avvertimento; la censura; la sospensione dall’esercizio professionale per un tempo non maggiore di sei mesi; la cancellazione dall’albo.

Le due norme (sia quella legale che quella deontologica) fotografano e sintetizzano quali siano le conseguenze disciplinari della eventuale violazione dei precetti deontologici. L’inadempimento del libero professionista ai propri obblighi professionali (tra cui anche l’osservanza delle regole deontologiche) configura infatti una responsabilità che può essere civile, penale e disciplinare, in relazione ai diversi precetti violati.
Infatti, un medesimo fatto può essere valutato sotto diversi profili e determinare una responsabilità civile, secondo i criteri fissati dalle leggi civili, una responsabilità disciplinare, quando vi è stata violazione dei principi deontologici, e persino una responsabilità penale, quando l’omissione o la negligenza siano state intenzionalmente realizzate (ad es. ponendo in essere una condotta mossa dalla volontà di realizzare un patrocinio infedele, sleale e comunque lesiva degli interessi del proprio committente).

I provvedimenti disciplinari e i principi giuridici che regolano la loro irrogazione

Tutto ciò posto, per rimanere all’esame dei canoni del Codice Deontologico, eviteremo di sconfinare nella descrizione del procedimento (disciplinare) che consente la irrogazione delle sanzioni secondo diritto ed in modo garantito per i potenziali responsabili e ci atterremo all’esame dei provvedimenti disciplinari e dei principi giuridici che regolano la loro elaborazione ed irrogazione.

Orbene, con riguardo alle quattro tipologie delle sanzioni disciplinari previste dal Codice Deontologico, valga quanto segue.

  1. Avvertimento. L’avvertimento consiste nella esplicitazione all’incolpato delle condotte opinabili o disdicevoli compiute, con relativa esortazione a non reiterarle. Esso è comunicato con lettera raccomandata del Presidente del collegio di disciplina.
  2. Censura. La censura si invera anch’essa nella rappresentazione delle mancanze commesse dal professionista, accompagnate da una formale nota di biasimo. Essa è notificata all’iscritto per mezzo dell’ufficiale giudiziario.
  3. Sospensione dall’esercizio della professione. La sospensione determina la cessazione (a tempo determinato) dell’attività professionale in corso ed essa non potrà essere comminata per una durata maggiore di sei mesi e sarà sempre notificata a mezzo di ufficiale giudiziario. Preme precisare che la sanzione (della sospensione) acquisterà efficacia nei confronti del professionista sanzionato soltanto con la effettiva comunicazione della medesima. Ciò appare quanto mai corretto proprio alla luce del principio in base al quale una incisione così forte della sfera giuridica dei destinatari richiede la piena conoscenza e collaborazione dei medesimi soggetti.
  4. Cancellazione dall’albo professionale. Come la sospensione, anche la cancellazione dall’albo comporta la cessazione dall’esercizio della libera professione. Anch’essa dovrà essere notificata all’interessato per mezzo dell’ufficiale giudiziario. In ogni caso, spicca la maggior gravità della sanzione in questione, in quanto essa non è circoscritta ad un lasso di tempo determinato ma, viceversa, è a tempo indeterminato. Si rammenti infine che chi è stato cancellato dall’albo può chiedere di esservi nuovamente ammesso. Tuttavia, la nuova iscrizione presuppone che siano cessate le ragioni che avevano determinato la cancellazione e che siano trascorsi più di due anni dall’originario provvedimento sanzionatorio (art. 14, commi 1 e 3, R.D. n. 274/29).

Criteri-guida dell’Organo disciplinare nella comminazione delle sanzioni

Possiamo infine soffermarci su alcuni principi a cui l’Organo disciplinare dovrà uniformarsi e/o ispirarsi per la migliore valutazione degli addebiti contestati al professionista incolpato e per la comminazione di sanzioni disciplinari giuste e legittime.

  1. In primis, possiamo evidenziare la rilevanza ed essenzialità della cd. motivazione del provvedimento disciplinare. Infatti, la decisione dell’Organo di disciplina dovrà essere sempre adeguatamente motivata. A tal proposito, si rammenta che l’obbligo di motivazione del provvedimento (amministrativo) disciplinare potrà ritenersi assolto quand’anche la decisione ne appaia apparentemente sprovvista, purché la documentazione raccolta con l’istruttoria contenga elementi sufficienti ed univoci dai quali si possano ricostruire le concrete ragioni della determinazione assunta. Per l’effetto, il provvedimento disciplinare potrà ritenersi idoneamente motivato anche a fronte di un rinvio (contenuto nel provvedimento medesimo) alla relativa deliberazione del Collegio di disciplina ovvero (anche tramite quest’ultima) ai documenti istruttori.
  2. In secondo luogo, giova rammentare che proprio la norma sulle sanzioni disciplinari del Codice Deontologico (art. 27) prevede anche che “Tali sanzioni (siano) da applicare in misura proporzionale alla gravità della sanzione commessa”. Il principio fondamentale della proporzionalità è uno dei criteri-guida a cui l’Organo disciplinare deve sempre informare la propria azione nella valutazione delle condotte sottoposte al suo giudizio. In base a tale principio, non dovranno essere adottati provvedimenti eccessivamente gravi in caso di infrazioni, per contro, ritenute di lieve entità.
    Sul punto specifico, la dottrina e la giurisprudenza riconoscono al “giudice” disciplinare il potere di individuare, secondo i fatti del caso specifico, la gravità dell’infrazione stessa. Il Collegio di disciplina provvederà pertanto all’applicazione di una sanzione disciplinare adeguata al caso concreto, avuto riguardo alla sfera soggettiva del responsabile, alla sua intenzionalità e/o consapevolezza di ledere gli interessi altrui, alla reiterazione o meno dei comportamenti oggetto d’indagine, alla capacità offensiva della sua condotta nei confronti del committente e/o dei terzi, alla lesività dell’immagine della categoria ecc.
  3. Un ulteriore fondamentale criterio che deve ispirare l’azione di chi esercita il potere disciplinare è quello dell’attenzione proprio alla recidività del soggetto incolpato, ossia alla ricaduta del professionista nella commissione di infrazioni disciplinari. L’Organo giudicante dovrà pertanto valutare con estrema attenzione la mancanza o la sussistenza di precedenti disciplinari e, in tal caso, la loro risalenza nel tempo, la connessione o meno con la nuova infrazione, ecc. Alla luce di una approfondita disamina del caso concreto e della eventuale recidività dell’autore, l’Organo potrà applicare sanzioni via via più gravi in virtù del cd. principio della gradualità.
  4. Per l’effetto, strettamente connesso alla recidività dell’autore dell’illecito disciplinare opera l’altro criterio cui il Consiglio di disciplina deve attenersi, che è appunto quello della gradualità. In base a tale principio, sarà possibile applicare per infrazioni disciplinari dello stesso tipo sanzioni di importanza via via crescente.
    Pertanto, ancora una volta, in virtù del principio generale del favor rei, l’Organo disciplinare dovrà, nell’individuazione ed applicazione delle sanzioni disciplinari, disporre ed avvalersi di doti di buon senso ed equità.
  5. Può accadere infine che il medesimo tipo di infrazione venga commesso da vari professionisti ovvero che più professionisti siano coinvolti nello stesso comportamento disciplinarmente rilevante. La soluzione più semplice potrebbe essere quella di applicare la medesima sanzione a tutti i professionisti responsabili. Tuttavia, prudenza e saggezza vogliono che, alla luce dei principi di recidività, proporzionalità e gradualità appena esaminati, vi sia la possibilità, per non dire l’obbligo, di diversificare la sanzione in funzione proprio dei comportamenti in precedenza tenuti dai vari professionisti incolpati. E tale valutazione non dovrebbe essere limitata ai comportamenti disciplinarmente rilevati e sanzionati in precedenza ma anche a tutto l’excursus professionale, ben più complesso e pregnante, del soggetto sottoposto a procedimento disciplinare.

Lavoro / Ammortizzatori sociali e costi “occulti” per le aziende

Nell’attuale crisi sanitaria, economica e sociale, lo strumento delle integrazioni al reddito si è rivelato un mezzo necessario per sostenere le imprese, da un lato, e, dall’altro, per puntellare il reddito dei lavoratori dipendenti che si sono trovati nell’impossibilità di rendere la prestazione lavorativa per via delle restrizioni dovute alle disposizioni per il contenimento della pandemia.

Gli ammortizzatori sociali sono stati utilizzati, inoltre, come mezzo di compensazione del “blocco” dei licenziamenti imposto dallo Stato che, per ragione di tenuta sociale, ha fortemente limitato la libera iniziativa imprenditoriale.

L’intento del Governo è stato quindi quello di eliminare (melius, attutire) per le aziende il “costo del lavoro”.

Se da un lato possiamo dire che la volontà del Legislatore ha colto nel segno (le aziende non sostengono il costo della retribuzione ordinaria e della relativa contribuzione), da un altro lato non si tiene conto dei cd. costi “occulti” che rimangono comunque in capo al datore di lavoro.

La gestione emergenziale ha sicuramente snellito le procedure ed eliminato, almeno in parte, alcuni oneri che il datore di lavoro doveva sopportare in caso di utilizzo di ammortizzatore sociali “ordinari”.

Infatti, nel nostro ordinamento esistono numerosi ammortizzatori sociali cd. ordinari, utilizzati anche nel periodo emergenziale (CIGO – AO FIS – AO Fondi Bilaterali, FSBA, CISOA, CIGD), con regole e oneri diversi.

Esaminiamo brevemente tali costi, assumendo come esempio l’utilizzo della CIGO (cassa integrazione guadagni ordinaria), ossia l’ammortizzatore sociale principale e più utilizzato sia in forma “ordinaria” che “emergenziale”.

Il costo più rilevante sostenuto dalle imprese è il costo del finanziamento della CIGO. Infatti, tutte le imprese rientranti nel settore industria sono tenute al pagamento di un importo mensile calcolato sulla retribuzione imponibile dei dipendenti, che ha il preciso scopo di finanziare la gestione della cassa integrazione al di là dell’effettivo utilizzo.

La cassa integrazione ordinaria erogata per lo stato emergenziale, proprio per la sua particolarità, non viene alimentata da questo fondo, bensì direttamente da fondi dello Stato.

Per l’effetto, si può riconoscere come in questo caso, l’accesso all’ammortizzatore sociale non abbia attinto fondi dai versamenti contributivi delle aziende e, pertanto, non abbia costituito un onere per le stesse.

Nel caso di utilizzo degli ammortizzatori sociali, al costo del finanziamento si vanno ad aggiungere altri costi in parte contributivi ed in parte retributivi. Infatti, con la riforma degli ammortizzatori sociali ex D.Lgs 148/2015, è stato previsto un contributo aggiuntivo in caso di utilizzo da parte delle aziende di ore di cassa integrazione ordinaria.

La misura del contributo aggiuntivo è pari al 9% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate per un limite complessivo di 52 settimane. L’aliquota aumenta fino al 12% per gli interventi oltre le 52 settimane nel quinquennio mobile ed al 15% oltre le 104 settimane nel quinquennio mobile.

Tale contributo non è dovuto nel caso di eventi oggettivamente non evitabili, ovverosia casi fortuiti, improvvisi, non prevedibili e non rientranti nel rischio di impresa, dalle imprese sottoposte a procedure concorsuali e dalle imprese che ricorrono ai trattamenti ex art. 7 DL 148/1993. Allo stesso modo, nelle prime settimane di intervento di cassa integrazione per Covid-19, non è stato previsto alcun onere previdenziale aggiuntivo per le imprese fruitrici.

Viceversa, nelle successive ulteriori settimane concesse – dal decreto Agosto in poi- viene richiesto alle imprese che sospendono o riducono l’attività un contributo aggiuntivo correlato all’entità della perdita di fatturato registrata. In questo modo, il Governo ha cercato di finanziare parte dell’intervento, altrimenti a totale carico dello Stato, senza gravare sulle aziende maggiormente colpite dalla crisi.

L’introduzione del contributo aggiuntivo ha anche l’effetto di deflazionare l’eventuale utilizzo “improprio” della cassa integrazione. Per la stessa motivazione è stato previsto un bonus contributivo per quelle aziende che, nella seconda metà dell’anno, non ricorrano ad ammortizzatori sociali. Tale bonus risulta, come noto, essere correlato all’entità della sospensione dal lavoro registrata tra maggio e giugno 2020 dalla medesima azienda.

Non solo. Anche durante la sospensione coperta da CIGO emergenziale l’azienda deve sostenere alcuni costi che spesso risultano “occulti” per l’imprenditore. In questi casi, ai sensi dell’articolo 2120, co. 3 Codice Civile, continua a computarsi interamente il trattamento di fine rapporto“… in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro”.

Il lavoratore pertanto, anche durante l’assenza, matura per intero la quota di TFR come se non ci fosse stata alcuna sospensione o riduzione.

Oltre alla maturazione del trattamento di fine rapporto, bisogna considerare anche altri elementi che continuano la loro maturazione ordinaria quali: anzianità di servizio, scatti di anzianità, periodo di comporto.

Diverso discorso va fatto per i ratei delle mensilità aggiuntive e delle ferie. In via ordinaria, si avrà piena maturazione degli stessi ratei qualora la sospensione non sia stata maggiore di 15 giorni. Bisogna fare attenzione alla circostanza che la contrattazione collettiva nazionale, ma anche territoriale, può definire criteri di maturazione diversi e che gli accordi sindacali, eventualmente definiti in azienda per l’accesso agli ammortizzatori, possono prevedere comunque condizioni di miglior favore per il lavoratore.

In conclusione, anche le imprese che hanno le attività sospese e ricorrono alla CIGO con causale Covid-19 non azzerano totalmente il costo del lavoro.

 

 

 

 

Lavoro / Licenziamento vietato nel periodo di emergenza sanitaria per l’epidemia Covid-19: nullità del recesso e reintegra in servizio

I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (o quelli collettivi) intimati durante il divieto di licenziamento in vigore dal 17 marzo 2020 sono nulli ex art. 1418 c.c. per contrarietà a una norma imperativa. Ciò considerato,  il lavoratore licenziato per motivi economici nel periodo di vigenza del blocco potrà richiedere, oltre alla reintegrazione in servizio, il risarcimento del danno dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, con il minimo di cinque mensilità (art.18, comma 1, della legge 300/1970; art. 2 del D.lgs. 23/2015).

Sulle conseguenze sanzionatorie, in caso di violazione del divieto, si è espressa la giurisprudenza di merito, come il Tribunale di Mantova l’11 novembre 2020, dichiarando la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in violazione dell’espresso divieto introdotto dai decreti legge nn. 18/2020, 34/2020, 104/2020 e 137/2020 per fronteggiare l’emergenza Covid-19. Detto Tribunale ha sottolineato che il divieto di licenziamento nel corso dell’emergenza sanitaria è una tutela temporanea della stabilità dei rapporti, atta a salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico, aggiungendo che si tratta di una misura collegata a esigenze di ordine pubblico. Pertanto, il Tribunale mantovano ha concluso che il recesso in questione è affetto da radicale nullità, con conseguente applicabilità della tutela reale “piena” prevista dall’art. 18, comma 1, St. lav. e dall’art. 2, d.lgs. n. 23/2015.

Non solo. E’ inoltre nullo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la cui comunicazione scritta, spedita prima dell’inizio del blocco (17 marzo 2020), sia stata ricevuta successivamente all’entrata in vigore dell’art. 46 del Dl 18/2020. In questa ipotesi, la ratio della nullità discende dal principio generale per cui il licenziamento è un atto recettizio che, in base all’art. 1334 c.c.  produce effetto nel momento in cui arriva a conoscenza del soggetto al quale è destinato (Tribunale di Milano, 28 gennaio 2021).

Ancora il Tribunale di Milano ha dichiarato nullo altro licenziamento, questa volta intimato per mancato superamento del periodo di prova durante il divieto. In questo caso, infatti, non solo il patto di prova apposto al contratto era stato dichiarato nullo, ma emergeva contestualmente un collegamento tra il licenziamento intimato e la congiuntura economica negativa legata all’emergenza Covid-19 (Tribunale di Milano, 21 gennaio 2021).

Non meno interessante è la sentenza del Tribunale di Ravenna che, nel qualificare come oggettivo il licenziamento del lavoratore per inidoneità alla mansione, ha accertato la nullità del recesso intimato in costanza di divieto in base all’art. 1418 c.c., condannando la società resistente a reintegrare il lavoratore e al pagamento a titolo di risarcimento del danno ex art. 2 del D.lgs. 23/2015, trattandosi di un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 (Tribunale di Ravenna, 7 gennaio 2021).

Fermi restando i singoli casi trattati, la giurisprudenza di merito che si è occupata delle conseguenze del , il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel periodo di emergenza sanitaria per l’epidemia Covid-19, sembra concorde nel valutare il licenziamento in questione come nullo, perché contrario alle norme imperative previste dall’art. 1418 c.c. La nullità determinerà l’applicazione delle conseguenze sanzionatorie che ne derivano, ossia la reintegrazione in servizio, nei confronti di tutti i datori di lavoro, a prescindere dalla dimensione dell’azienda.

La deontologia del geometra nello svolgimento del suo incarico

Con il Titolo III (Della prestazione), che si compone di cinque sezioni dedicate a tutti gli aspetti che regolano lo svolgimento dell’incarico del geometra libero professionista, viene analizzata e regolamentata principalmente la condotta che il professionista deve porre in essere sia nei confronti del committente, sia nei confronti di soggetti esterni, come uffici, enti e istituzioni con i quali entra in contatto e si relaziona.

La prima sezione del Titolo III è dedicata all’“incarico” e analizza il tipo di rapporto che viene concluso fra il professionista ed il suo committente.

Con l’art. 18 il Codice pone alla base del rapporto professionale tra geometra e cliente, che dev’essere anzitutto personale e fiduciario, principi di trasparenza ed onestà. Il geometra – rammenta la norma – conclude con il committente una prestazione d’opera intellettuale.

Si prosegue con il principio di libera scelta del committente in relazione all’attribuzione dell’incarico da affidare al geometra e con il dovere di astensione di quest’ultimo da qualsiasi comportamento volto ad influire su tale facoltà del committente (art. 19).

Connesso al principio di libera scelta del committente è il principio della libera determinazione del compenso tra le parti, che tuttavia deve avvenire nel rispetto di un criterio di adeguatezza dell’onorario all’importanza dell’opera commissionata (art. 20). Tale canone deontologico è tra i più rilevanti e delicati di quelli che regolano i rapporti professionista-committente: esso, infatti, se da un lato assicura e garantisce la massima libertà alle parti del rapporto contrattuale nella individuazione della misura del compenso del professionista (e per l’effetto anche la facoltà del committente di richiedere una “scontistica” di suo comodo), dall’altro impone all’iscritto di non accettare il “gioco al ribasso” che la committenza (specie se contrattualmente più solida) spesso esercita ed, anzi, di esigere un accordo economico che rispetti la dignità del prestatore d’opera intellettuale e la rilevanza del servizio reso.

Tra i fondamentali principi che informano lo svolgimento dell’incarico, vi è soprattutto quello della fiducia. Esso è fondato sugli obblighi di buona fede, correttezza, lealtà, trasparenza e veridicità della comunicazione del professionista verso il suo assistito. L’eventuale scelta del geometra di avvalersi di collaboratori o dipendenti non farà mai venire meno la connotazione personale caratterizzante la sua prestazione professionale (art. 21). L’ultimo comma dell’articolo dovrebbe essere pleonastico ma, poiché presente, di tutta evidenza si deve ritenere che esso abbia una giustificazione ed uno scopo. Infatti, detto precetto impone l’assoluto divieto, in capo al geometra, di avvalersi di collaboratori che esercitino la professione in maniera abusiva. Pare un eccesso di zelo la formulazione di una simile raccomandazione ma v’è da pensare che il legislatore del Codice deontologico abbia avuto fondati motivi per inserirla. Per cui, è bene rammentare a tutti che la fattispecie è pacificamente vietata e quindi deontologicamente sanzionabile.

Si prosegue con un canone di massima rilevanza e responsabilizzazione degli iscritti, che potremmo definire di onestà intellettuale. Ossia, quello che prevede l’obbligo per il professionista di riconoscere il perimetro delle proprie competenze ed, in caso di difetto di una competenza adeguata, di declinare gli incarichi in materie ed argomenti non di sua sufficiente conoscenza. In ogni caso, si prevede che il geometra, ad incarico accettato, in caso di sopravvenuta difficoltà d’esecuzione, ha il diritto ed il dovere di approfondire la sua formazione nonché di chiedere la “supervisione agli organi di categoria” competenti. La stessa norma, infine, prescrive il divieto per il professionista di farsi condizionare, nello svolgimento dell’incarico, da sollecitazioni o interessi personali di soggetti esterni volti a ridurre o annullare il contenuto intellettuale della prestazione per favorire l’economicità della stessa (art. 22).

***

Nella seconda sezione, rubricata “dello svolgimento e formazione continua”, con l’art. 23 il Codice prescrive per il professionista due ulteriori obblighi:

  1. a) di osservanza dello standard di qualità sancito dal Consiglio Nazionale da osservare durante l’esecuzione della prestazione;
  2. b) di continuo aggiornamento della propria preparazione professionale, attraverso attività di informazione e formazione, così come previste dal Consiglio Nazionale.

***

Nella terza sezione, l’art. 24 istituisce per il geometra anche il canone dell’obbligo di osservanza del segreto professionale. Difatti, il geometra ha il dovere di non divulgare le informazioni acquisite durante l’assolvimento del mandato professionale ed in funzione di questo. In particolare, tale riservatezza deve essere rigorosamente mantenuta sia durante lo svolgimento dell’incarico, sia nella fase successiva al suo compimento.

Lo stesso articolo, poi, estende il dovere di riservatezza anche ai collaboratori, ai praticanti ed ai dipendenti del professionista, il quale è tenuto ad adottare ogni misura necessaria a conseguire tal fine e, in caso di violazione di tale obbligo, rimane personalmente garante e responsabile verso il suo cliente.

***

Nella quarta sezione, all’art. 25, il Codice regolamenta il rapporto del professionista con soggetti esterni, terzi rispetto al rapporto con la committenza. Alla base delle succitate relazioni, che si instaurano con Uffici Pubblici e Istituzioni, vigono il principio di indipendenza e quello di rispetto delle relative funzioni ed attribuzioni.

In particolare, vengono in considerazione i seguenti precetti:

  1. a) rispettare le funzioni alle quali sono adibite le persone fisiche con cui si entra in contatto;
  2. b) astenersi dall’utilizzare in modo interessato la collaborazione dei dipendenti delle PP.AA. ed evitare di trarre vantaggio dai rapporti personali instaurati con i medesimi.

***

Infine, la quinta sezione disciplina i rapporti con i committenti.

La norma di cui all’art. 26 del Codice si apre con un precetto di carattere generale, che appare un invito al professionista a mantenere sempre una informazione ampia e dettagliata verso il proprio cliente, senza reticenze, resistenze o artifizi. Potremmo definirlo un obbligo di massima trasparenza.

Nello specifico, si precisano i seguenti doveri:

  1. a) concordare e precisare l’oggetto dell’incarico ed i limiti della prestazione pattuita;
  2. b) in caso di più parti coinvolte, informare i committenti sull’eventuale sopravvenuta sussistenza di interessi contrapposti o concomitanti che possano influire sul consenso alla prosecuzione dell’incarico stesso;
  3. c) non eccedere nella gestione degli interessi rispetto ai limiti dell’incarico ricevuto;

d) astenersi dall’assumere un incarico professionale che possa essere in contrasto con le risultanze di una prestazione già svolta, anche al fine di evitare di provocare un danno al precedente committente.