Decreto Dignità 9 / Circolare Ministero del Lavoro n. 17 del 31 ottobre 2018

È stata emanata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali la Circolare n. 17 del 31 ottobre 2018 sul Decreto Legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito dalla Legge 9 agosto 2018, n. 96.

Detta Circolare fornisce le prime indicazioni interpretative in considerazione delle richieste di chiarimento pervenute al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sul cd. Decreto Dignità. Ne esaminiamo i passaggi più rilevanti in tema di contratto a termine.

Il Ministero prende atto che le modifiche alla disciplina previgente, contenute nell’art. 1, comma 1, del cd. Decreto Dignità, riguardano la riduzione da 36 a 24 mesi della durata massima del contratto a tempo determinato, con riferimento ai rapporti stipulati tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, anche per effetto di una successione di contratti, o di periodo di missione in somministrazione a tempo determinato, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dai periodi di interruzione (art. 19, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 81/2015).

In particolare, la Circolare conferma che alle parti è riconosciuta la facoltà di stipulare un contratto di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi, mentre nel caso di durata superiore a suddetto periodo, tale possibilità è riconosciuta solo in presenza di precise ragioni che giustificano un’assunzione a termine, quali:

– esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;

– esigenze di sostituzione di altri lavoratori;

– esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Si osserva ancora che, per stabilire se ci si trovi in presenza di tale obbligo si deve tener conto della durata complessiva dei rapporti di lavoro a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando sia la durata di quelli già conclusi, sia la durata di quello che si intende eventualmente prorogare.

A tal proposito, si fa l’ipotesi di un contratto a termine della durata di 10 mesi che si intenda prorogare per ulteriori 6 mesi. In questo caso, anche se la proroga interviene quando il rapporto non ha ancora superato i 12 mesi, ma avendo il rapporto di lavoro, ai sensi dell’art. 19, comma 4 del D.Lgs. n. 81/2015, una durata complessivamente superiore a 12 mesi, sarà necessario indicare le esigenze innanzi richiamate.

Infatti, l’indicazione della causale della proroga, sarà sempre necessaria quando si superano i 12 mesi di rapporto, anche se il superamento avverrà proprio a seguito e durante la proroga.

Si precisa altresì che, anche quando non è richiesto al datore di lavoro di indicare le motivazioni di  cui al citato decreto, le stesse dovranno essere comunque indicate per usufruire dei benefici previsti da altre disposizioni di legge (come ad esempio per gli sgravi fiscali di cui all’articolo 4, commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 151 del 2001, riconosciuti ai datori di lavoro che assumono a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo).

Alcuna modifica ha subito l’art. 19, comma 3 del richiamato decreto, ai sensi del quale, raggiunto il limite massimo di durata del contratto a termine, le parti possono stipulare un ulteriore contratto della durata di 12 mesi presso le sedi territorialmente competenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro.

Tuttavia, anche a codesto ultimo contratto (stipulato nella sede protetta dell’Ispettorato) si applica la nuova disciplina dei rinnovi, la quale impone l’obbligo di individuazione della causale, a norma degli artt. 21, comma 1 e 19, comma 1 del D.Lgs. n. 81/2015.

Anche secondo i tecnici del Ministero, l’art. 19, comma 2, del decreto legislativo n. 81/2015 non ha subito modifiche dal decreto legge n. 87, nella parte in cui rimette anche per il futuro alla contrattazione collettiva la facoltà di derogare alla durata massima del contratto a termine.

Pertanto, i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, potranno continuare a prevedere per i contratti a termine una durata diversa (anche superiore) rispetto al nuovo limite massimo dei 24 mesi.

Si precisa anche che, per i contratti collettivi stipulati prima del 14 luglio 2018 i quali abbiano previsto una durata massima per i contratti a termine pari o superiore ai 36 mesi, mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza dell’accordo collettivo.

Il decreto legge n. 87, invece, non pare abbia attribuito alla contrattazione collettiva alcuna facoltà di intervenire sul nuovo regime delle condizioni (cd. causali).

La Circolare chiarisce anche che, all’art. 19, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2015, con l’eliminazione del riferimento alla possibilità che il termine debba risultare “direttamente o indirettamente” da atto scritto, si è inteso offrire maggiore certezza in merito alla sussistenza di tale requisito. Viene esclusa solo la possibilità di desumere da elementi esterni al contratto la data di scadenza, ad eccezione di alcuni casi limite in cui il termine del rapporto continui a desumersi indirettamente in funzione della specifica motivazione che ha dato luogo all’assunzione, come ad esempio nel caso di una lavoratrice in maternità di cui non è possibile conoscere in anticipo l’esatta data di rientro al lavoro, seppur nel rispetto del termine massimo dei 24 mesi.

Certificazione dei contratti di lavoro: occasione di trasparenza e redditività per le aziende

La cd. certificazione dei contratti di lavoro, oltre a svolgere la funzione prevalente di prevenire l’illegalità e favorire l’emersione del lavoro sommerso, costituisce una valida alternativa rispetto al rischio di conseguenze sanzionatorie in caso di ispezione del lavoro, oltre che un forte deterrente per il dipendente o collaboratore che voglia promuovere un giudizio di riqualificazione del rapporto di lavoro in essere che abbia ricevuto in origine lo stigma della certificazione.

In molti casi, infatti, la certificazione costituisce, in virtù di espresse previsioni normative, condizione legittimante di precise scelte datoriali. Ci si riferisce in particolare all’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2015, in virtù del quale la certificazione svolge la funzione di escludere l’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione, che si configurano quali prestazioni di lavoro personali e continuative, con organizzazione, da parte del committente, delle modalità di esecuzione, dei tempi e del luogo di lavoro.

L’istituto è stato introdotto dagli artt. 75 – 84 del D.Lgs. n. 276 del 2003 e precisato dagli artt. 30 e 31 del cd. Collegato lavoro, di cui alla Legge n. 183 del 2010.

La certificazione costituisce un atto amministrativo, volontario, con forza di legge, che attesta la conformità di un contratto di lavoro alle specifiche previsioni normative afferenti la fattispecie in esame, quali la natura e le modalità di svolgimento del rapporto lavorativo.

Atti oggetto di certificazione

Possono essere oggetto di certificazione tutti i contratti in cui sia direttamente o indirettamente dedotta una prestazione lavorativa, fino ad includere il contratto commerciale di somministrazione tra agenzia ed utilizzatore e il contratto di appalto.

Quindi, per riassumere, gli atti oggetto di possibile certificazione possono essere:

-tutti i contratti di lavoro

-i regolamenti interni delle cooperative

-le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro, ex art. 2113 c.c.

Effetti della certificazione

Con riguardo agli effetti della certificazione, si precisa che, con l’apposizione di essa, il contratto di lavoro acquisisce forza di legge e produce effetti civili, previdenziali, amministrativi e fiscali fino alla sentenza di merito, nei confronti di terzi, quali Ispettorati del lavoro, Enti assicuratori e Organismi tributari e fiscali.

La certificazione vincola altresì il Giudice in quanto non può discostarsi, nella qualificazione del contratto e nella interpretazione delle clausole, dalle valutazioni della Commissione di certificazione, ad eccezione del caso di una erronea qualificazione, di vizi del consenso o di difformità nelle modalità di esecuzione rispetto a quanto certificato.

Organismi di certificazione

Gli organismi abilitati alla certificazione sono:

-le Commissioni istituite presso gli Ispettorati del lavoro e presso le Province (competenza non esclusiva riguardante il regolamento delle cooperative);

-il Ministero del lavoro, cui possono ricorrere i datori di lavoro con un’unica sede di lavoro, associati ad organizzazioni imprenditoriali, che abbiano predisposto schemi di convenzione, o i datori di lavoro che abbiano la propria sede in almeno due Province. Si rappresenta in proposito che le certificazioni rilasciate dalla Commissione centrale sono sottoposte alla ratifica da parte delle Commissioni provinciali;

-le Commissioni istituite presso le Università e le Fondazioni universitarie, obbligatoriamente registrate nell’apposito Albo delle Commissioni di Certificazione tenuto dal Ministero del lavoro, al quale forniscono, ogni sei mesi, studi ed elaborati di indici e criteri giurisprudenziali seguiti per la qualificazione dei contratti, secondo le classificazioni indicate dal Ministero del Lavoro. Tali Commissioni possono essere composte solo da docenti di diritto del lavoro, legati da rapporti di prestazioni coordinate e continuative;

-i Consigli provinciali dei consulenti del lavoro attraverso le apposite Commissioni a competenza territoriale;

-le Commissioni istituite dagli Enti bilaterali, territoriali o nazionali; in merito, con la circolare n. 4 del 12/02/2018, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha precisato che gli Enti bilaterali abilitati allo scopo sono solo i soggetti costituiti ad iniziativa di una o più associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative.

Le Commissioni ora elencate effettuano e rilasciano la cd. certificazione sulla base dei criteri individuati nei cd. codici di buone pratiche, emanati dal Ministero del lavoro, che considerano i diritti e i trattamenti economici e normativi ricavabili anche dagli accordi interconfederali, unitamente ai regolamenti adottati da ciascuna Commissione.

Alle Commissioni sono attribuite altre competenze strumentali alla certificazione come, a titolo esemplificativo, la consulenza e l’assistenza nella stipulazione dei contratti, l’adeguamento del programma negoziale riferito alle modalità di esecuzione e l’informativa scritta da consegnare al lavoratore con l’indicazione delle linee guida da seguire per l’applicazione del contratto. La competenza tipizzata delle Commissioni non può subire alcuna deroga in merito ai diritti discendenti dal contratto.

Le Commissioni sono inoltre tenute ad esperire il tentativo di conciliazione, quale condizione di procedibilità dell’eventuale ricorso giurisdizionale avverso la certificazione.

Rientrano ancora tra le attribuzioni delle stesse Commissioni anche le conciliazioni riferite alle controversie individuali di cui all’art. 410 c.p.c.

Ricorsi avverso gli atti di certificazione

È possibile adire il Giudice del lavoro, dopo aver esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art.410 c.p.c., presso la stessa Commissione che ha emanato l’atto. Le ragioni potrebbero essere ricondotte:

1 – all’erronea qualificazione del contratto;

2 – alla difformità delle modalità di svolgimento rispetto a quanto certificato (effetti della sentenza di accoglimento dalla data della sua emanazione);

3 -ai vizi del consenso nella stipulazione del contratto.

Può esperirsi anche il ricorso al TAR in caso di violazione del procedimento (incompetenza e violazione di legge) e di eccesso di potere (uso erroneo del potere discrezionale, ignorando l’iter procedurale della certificazione).

In conclusione e ad onta della complessità procedurale volta ad assicurare la correttezza sostanziale dei contratti, il ricorso all’istituto della certificazione per le aziende vede quindi in prospettiva, tra le potenziali finalità, il possibile superamento del lungo e oneroso contenzioso connesso all’ispezione del lavoro.

Equo compenso per i professionisti

Primo argine di fronte alla vis contrattuale dei cd. committenti forti

Ad un anno circa dalla introduzione del cd. equo compenso dei professionisti – salutato anche in modo eccessivamente trionfalistico da alcune categorie di professionisti – è arrivato il momento per comprenderne meglio il significato e fare il punto sulla nuova misura.

L’art. 19 quaterdecies del Decreto Legge n. 148/2017 (convertito con legge n. 172/2017), intervenendo sull’art. 13 bis nell’ambito della Legge n. 247/2012, ha legiferato in materia di “equo compenso dei professionisti”, introducendo una autentica novità nel panorama della legislazione in materia ed invertendo, forse, una direttrice di marcia che durava da oltre dieci anni.

Inizialmente, secondo la prima stesura del decreto fiscale 2018, l’equo compenso era riservato solo agli avvocati che eseguono prestazioni per conto di banche, assicurazioni ed imprese.

In seguito, grazie alla approvazione di un emendamento all’art. 19 quaterdecies della legge n. 172/2017 di conversione del decreto, l’applicazione è stata estesa a tutti i professionisti (ovviamente, geometri inclusi), indipendentemente dal fatto che questi siano iscritti o meno ad un ordinamento professionale.

In concreto, il nuovo principio prevede che il compenso per le prestazioni professionali – rese a favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole e medie imprese – con riferimento ai casi delle convenzioni unilateralmente predisposte dalle predette imprese, perché si possa definire “equo”, deve risultare proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto ed alle caratteristiche della prestazione del professionista e conforme ai parametri previsti per i compensi professionali.

Dunque, dalla normativa ora in vigore, si evince che l’equo compenso del professionista deve essere conforme ai parametri indicati dal Regolamento del Ministero della Giustizia – per quel che concerne le professioni legali – e dai Decreti Ministeriali adottati per le altre professioni.

Pertanto, con riguardo alla casistica sopra prevista (contratti standard con cd. clienti forti) non è più sufficiente che, nel determinare il compenso del professionista, si tenga conto dei parametri ministeriali ma è necessario che esso sia proprio conforme” ai predetti parametri. In questo modo, vi è un sostanziale ritorno ai minimi tariffari, considerati questa volta legittimi e compatibili con la regolazione del mercato interno europeo anche sotto il profilo della concorrenza.

Viceversa, per tutto quanto non è stato esplicitamente modificato dalle nuove disposizioni in materia, il legislatore ha ritenuto opportuno che si applichino le disposizioni del codice civile.

Tutto ciò premesso, si comprende come la finalità della citata normativa sia quella di tutelare il professionista nel rapporto contrattuale con i cd. committenti forti, ossia: imprese bancarie, imprese assicurative, grandi imprese, impedendo che si verifichino squilibri tra diritti ed obblighi delle parti, sanzionando con la nullità l’accordo che preveda un compenso non equo per il professionista.

Restano invece esclusi tutti i cd. piccoli imprenditori, ossia le microimprese, le piccole e le medie imprese. Parimenti, figurano esclusi dall’ambito di operatività della norma gli agenti della riscossione.

La nuova disciplina precisa altresì che essa si applichi ai contratti sottoscritti con la Pubblica Amministrazione, ma esclusivamente per gli incarichi conferiti dopo l’entrata in vigore della Legge n. 172/2017.

Fermo quanto sopra, nell’ambito di una convenzione tra un professionista ed un committente (tra quelli su elencati) che assicuri correttamente il riconoscimento di un equo compenso, occorre che sussistano tutte le seguenti condizioni:

  • la predisposizione da parte delle imprese di una convenzione unilaterale che disciplini l’attività resa dai professionisti (iscritti agli ordini e collegi) di cui all’art. 1 della legge n. 81/2017;
  • la previsione di un equo compenso nell’ambito della convenzione stessa;
  • l’individuazione in forma scritta degli elementi essenziali del contratto;
  • l’esecuzione della prestazione da parte del professionista;
  • il pagamento della prestazione svolta dal professionista;
  • la possibilità di proporre azione di nullità della clausola che non preveda un compenso equo e delle eventuali clausole vessatorie;
  • la possibilità per il Giudice di dichiarare la nullità delle clausole vessatorie e rideterminare il compenso.

Per concludere, secondo quanto previsto dalla nuova normativa, vengono considerate vessatorie” le clausole, contenute nelle convenzioni in oggetto, che determinano, anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista.

In particolare, il comma 5 dell’art. 13-bis della L. n. 247/2012 prevede che si considerano vessatorie le clausole che consistono:

  1. nella riserva al cliente della facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto;
  2. nell’attribuzione al cliente della facoltà di rifiutare la stipulazione in forma scritta degli elementi essenziali del contratto;
  3. nell’attribuzione al cliente della facoltà di pretendere prestazioni aggiuntive che l’avvocato deve eseguire a titolo gratuito;
  4. nell’anticipazione delle spese della controversia a carico del professionista;
  5. nella previsione di clausole che impongono al professionista la rinuncia al rimborso delle spese direttamente connesse alla prestazione dell’attività professionale oggetto della convenzione;
  6. nella previsione di termini di pagamento superiori a 60 giorni dalla data di ricevimento da parte del cliente della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente;
  7. nella previsione che, in ipotesi di liquidazione delle spese di lite in favore del cliente, al professionista sia riconosciuto solo il minore importo previsto nella convenzione, anche nel caso in cui le spese liquidate siano state interamente o parzialmente corrisposte o recuperate dalla parte;
  8. nella previsione che, in ipotesi di nuova convenzione sostitutiva di altra precedentemente stipulata con il medesimo cliente, la nuova disciplina sui compensi si applichi, se comporta compensi inferiori a quelli previsti nella precedente convenzione, anche agli incarichi pendenti, o comunque, non ancora definiti o fatturati;
  9. nella previsione che il compenso pattuito per l’assistenza e la consulenza in materia contrattuale spetti soltanto in caso di sottoscrizione del contratto.

Al comma 8 dell’art. 13-bis viene previsto che le clausole definite quali vessatorie sono colpite dalla sanzione della nullità e viene al contempo precisato che il contratto resta valido per il residuo. Inoltre, la nullità opera soltanto a vantaggio del professionista.

Pertanto, ben si evince che la nullità è soltanto parziale poiché, in base a quanto previsto dalla norma, il restante contratto rimane valido e tutela comunque il professionista, rendendo nulla e inefficace soltanto la clausola contra legem.

Il professionista, in tal modo, che abbia fornito la propria prestazione alla grande impresa sulla base di una convenzione con clausole vessatorie potrà fare ricorso al giudice per accertare l’illegittimità della pattuizione.

L’azione diretta alla dichiarazione della nullità di una o più clausole del contratto può essere proposta nei termini della prescrizione prevista dalla legge.

Il giudice, una volta accertata la non equità del compenso o la vessatorietà di una o più clausole, dovrà procedere con la dichiarazione di nullità e per l’effetto con la rideterminazione del compenso del professionista, il quale deve essere equo e deve attenersi ai parametri previsti dai decreti ministeriali adottati per le varie professioni.

In definitiva, non è chi non veda come la normativa in esame comporti una sorta di reintroduzione dei cd. minimi tariffari, ovviamente con riferimento alle mere ipotesi previste nella norma (contratti con i committenti forti), ed è dunque fondata, in primo luogo, sull’esigenza di fornire una tutela ai giovani professionisti che molto spesso si vedono oggetto di condotte poco corrette da parte dei cd. clienti forti i quali, in assenza di vincoli normativi, disponevano di un potere contrattuale tale da essere in grado di determinare compensi gravemente incongrui per i professionisti stessi. Ora, un argine è stato posto. Sta ai professionisti cercare di farlo valere.

Responsabilità professionale del medico. Onere della prova sul sanitario. Principio di prossimità della prova. Non incidenza in materia della Riforma Balduzzi.

Il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento. Infatti, nell’obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. Pertanto in queste obbligazioni in cui l’oggetto è la stessa attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché può senza dubbio ritenersi che la prova sia più “vicina” a chi ha eseguito la prestazione piuttosto che al paziente che l’ha ricevuta; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto e che quindi è esigibile che sia quest’ultimo a dimostrare. Tale conclusione non è stata modificata dall’intervento della Legge Balduzzi, la responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’articolo 3 Legge n. 189/12 – essendo da qualificarsi come contrattuale.

Tribunale Ravenna, 02 Maggio 2018. Est. Farolfi, R.G.365/2015

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di RAVENNA

SEZIONE CIVILE

 

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Alessandro Farolfi, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, la sig.ra T. R. ha evocato in giudizio il dott. B. M. e M. C. Hospital s.p.a. (già S. P. D. Hospital s.p.a.), chiedendone la condanna solidale al risarcimento dei danni subiti a seguito dell’operazione chirurgica correttiva subita al piede dx per alluce valgo + dito “a martello” nell’aprile 2006 che, invece di eliminare un leggero indolenzimento al piede, causava conseguenze invalidanti ed ingravescenti cui seguivano ulteriori ricoveri ed interventi, con grave deterioramento della vita dell’attrice ed un danno permanente del 9%, un lungo periodo di inabilità temporanea, lesione della sua capacità lavorativa specifica di badante e necessità di ricorrere a personale a pagamento per l’assistenza al marito, deceduto nel 2008.

Si è costituito il dott. B., contestando integralmente la domanda attorea, rilevando che lo stesso era stato chiamato in mediazione e quindi evocato in giudizio ad otto anni da un intervento senza che l’attrice si fosse più ripresentata a controlli, dopo le due visite iniziali post operatorie; rilevava altresì la prescrizione della domanda attorea, avendo l’attrice concluso un contratto con l’allora Casa di Cura S. P. D. e configurandosi la responsabilità del medico convenuto a titolo extracontrattuale, ex art. 3 L. Balduzzi, ed in ogni caso l’assenza di nesso causale e di responsabilità. Il convenuto domandava, conseguentemente, il rigetto delle domande attoree e la chiamata in causa della propria compagnia assicurativa.

Si è altresì costituita la casa di cura privata M. C. Hospital S.p.a., rilevando la presenza di consenso all’atto medico da parte dell’attrice che peraltro era onere del medico acquisire nell’ambito del rapporto libero-professionale instaurato con quest’ultimo, nonché l’assenza di qualunque responsabilità della struttura. La convenuta concludeva per il rigetto delle domande attoree e per la chiamata in causa del medico già convenuto, per essere da questi tenuta indenne e manlevata di qualunque conseguenza negativa, nonché delle proprie compagnie assicuratrici.

Disposta la integrazione del contraddittorio, si è costituita la compagnia A. Assicurazioni s.p.a. associandosi alle difese della casa di cura ed eccependo l’esistenza di un massimale “a consumo” e la presenza di coassicurazione, rilevando che la stessa potrebbe al più rispondere sino all’importo di Euro 500.000 per tutti i sinistri verificatisi fra il 31/12/2003 e 31/12/2008 e solo in secondo rischio (ossia solo per l’eccedenza rispetto a quanto garantito dalla polizza personale) per i medici non dipendenti dalla casa di cura, quale era il dott. M. B., con una franchigia di 750.000 Euro.

Si è così costituita anche la G. I. s.p.a. contestando l’an ed il quantum della domanda attorea e l’estraneità della casa di cura dalla causazione del danno, eccependo l’esistenza di coassicurazione che per la terza chiamata corrisponde ad un 10% del massimale a consumo di Euro 1.000.000 (importo massimo risarcibile di Euro 100.000), e solo in secondo rischio (ossia solo per l’eccedenza rispetto a quanto garantito dalla polizza personale) per i medici non dipendenti dalla casa di cura, quale era il dott. M. B., con una franchigia di 750.000 Euro.

Si è infine costituita anche A. M. s.p.a., compagnia assicurativa del medico convenuto dott. B., aderendo alle difese di quest’ultimo e contestando che la polizza opera soltanto in secondo rischio, oltre il massimale assicurato dall’ente ovvero, in mancanza di copertura assicurativa dell’ente (pubblico o privato) per la sola ipotesi di insolvenza dello stesso, nonché l’inoperatività della garanzia rispetto alla domanda di rivalsa svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario e, in ogni caso, l’inoperatività della polizza per la mancata comunicazione delle richieste risarcitorie già pervenute al momento di accensione del rapporto assicurativo e l’assenza di copertura quanto all’eventuale ipotesi di carenza di consenso informato.

In corso di causa, dopo la concessione dei termini di cui all’art. 183 co. 6 c.p.c., è stata espletata una CTU medico legale (dep. 24/04/2017 da parte del dott. B.).

La causa è stata infine trattenuta in decisione da questo Giudice all’udienza del 13/12/2017, previa concessione di termini per conclusionali e repliche.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda risarcitoria di parte attrice appare fondata, per quanto di ragione, e deve essere accolta alla luce e nei limiti delle seguenti considerazioni.

La C.T.U. espletata in corso di causa, eseguita con corretta metodologia e nel pieno rispetto del contraddittorio, dopo ampia ricostruzione dei dati anamnestici e della “storia” sanitaria della paziente (vds. p. 5 e ss.) ha portato ad evidenziare, mediante argomentazioni scevre da vizi logici e basate sul consulto di altro sanitario specialistico, che l’intervento chirurgico poteva apparire giustificato quale scelta terapeutica e che, tuttavia “sono emerse delle criticità nella materiale esecuzione dello stesso” (p. 22), con una evoluzione post chirurgica espressamente definita come “negativa” (p. 23) e “intimamente correlata ad un inserimento inadeguato dei cerchiaggi, alias errore tecnico” ed ancora la sussistenza di nesso causale “in altri e più precisi termini, la coerente analisi dei dati tecnici a disposizione permette di rilevare come alle avversità (altrimenti evitabili) sopra citate abbia efficientemente concorso una incongrua esecuzione dell’intervento da parte del dott. M. B., rilavando altresì una carenza di valida continuità assistenziale post operatoria. Conclude sul punto il CTU, in modo convincente, che “l’erronea condotta del dott. M. B. si pone come antecedente causale giuridicamente rilevante nel determinismo del successivo e travagliato iter clinico della sig.ra T. R.” (p. 24). Aggiunge il CTU che “seguendo un continuum fenomenologico del tutto coerente, a distanza di circa 2 anni dal duplice e ravvicinato intervento chirurgico la paziente pativa una alterazione anatomo-funzionale dei nervi plantari con sviluppo dei neuromi di Morton al 1° spazio ed al 1° raggio metatarsale, di per sé responsabili di un (ulteriore) 3° intervento per la loro rimozione”.

Il CTU ha risposto in modo coerente alle osservazioni mosse dai CTP di parte, non risultando perciò necessaria la sua chiamata a chiarimenti né, tanto meno, una rinnovazione delle operazioni peritali (vds. p. 26 e ss. dell’elaborato).

Ritiene invece lo scrivente magistrato che il consenso della paziente sia stato reso con modalità sufficientemente informate, tenuto conto che esiste modulo di raccolta del consenso che evidenzia i principali rischi e che, soprattutto, il tenore dell’informazione non può spingersi a descrivere rischi improbabili o esiti infausti di per sé discendenti da una scorretta esecuzione dell’atto sanitario, posto che altrimenti dovrebbe accogliersi un inammissibile ragionamento tautologico per cui ogni volta in cui sia ravvisabile una condotta in qualche misura negligente nell’esecuzione della terapia o dell’intervento chirurgico dovrebbe necessariamente ravvisarsi, al contempo, una omissione informativa. Il che evidentemente non è. Giova aggiungere che la scelta chirurgica in sé non è stata oggetto di critica da parte del CTU, sì che neppure può sostenersi che il paziente avrebbe potuto alternativamente percorrere misure conservative e che, ancora, l’esecuzione dell’intervento è stata preceduta – per quanto affermato dalla stessa attrice – dall’esecuzione nel marzo del 2006 di esame radiografico e da un’ulteriore visita a seguito del quale la paziente è stata certamente informata delle condizioni di salute in cui versava e della necessità dell’intervento e delle sue almeno indicative modalità di esecuzione e rischi. La circostanza che la scelta chirurgica sia poi stata condivisa dal CTU come appropriata al caso (seppure non correttamente eseguita) toglie pregio all’argomento secondo cui una più approfondita informazione avrebbe consentito alla paziente di scegliere altro trattamento terapico.

Pur con tale precisazione, deve perciò ritenersi la sussistenza dell’an debeatur della responsabilità di entrambi i convenuti, in ragione della responsabilità contrattuale su di essi gravante e sul conseguente onere della prova liberatoria dai medesimi non fornito. Tale conclusione di ordine probatorio è stata applicata al campo sanitario dalla nota ed ancora attuale Cass. 28.5.2004, n. 10297, ritenendo che deve affermarsi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento: «Più precisamente, consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà». Secondo il S.C. porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica soddisfa la linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova fondata sul principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. Secondo i giudici infatti, nell’obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. Pertanto in queste obbligazioni in cui l’oggetto è la stessa attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché può senza dubbio ritenersi che la prova sia più “vicina” a chi ha eseguito la prestazione piuttosto che al paziente che l’ha ricevuta; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto e che quindi è esigibile che sia quest’ultimo a dimostrare

In diritto, un tale principio ha ricevuto compiuto svolgimento e precisazione – anche per le case di cura private oltre che per i plessi sanitari pubblici – con la nota Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 577, secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.

Tanto sulla scorta della seguente condivisibile premessa: “per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria. Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto”.

Tale conclusione non è stata modificata, ad avviso dello scrivente, dall’intervento della Legge Balduzzi (mentre il caso non è assoggettabile alle ultime disposizioni della legge Gelli, di riforma della precedente normativa).

Infatti, il Tribunale di Milano, smentendo una interpretazione di detta normativa in chiave “extra contrattuale” ha correttamente ritenuto che: «la responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’articolo 3 Legge n. 189/12 – è da qualificarsi come contrattuale … D’altra parte, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l’azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il solo regime della responsabilità extracontrattuale escludendo così l’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 1218 del codice civile, così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per esempio «la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria per l’attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall’art. 2043 del codice civile») anziché il breve inciso in commento» (cfr. Trib. Milano n. 13574/2013). Anche altri giudici di merito hanno continuato ad interpretare in chiave contrattuale la responsabilità del sanitario (oltre a quella pacifica dell’ente ospedaliero): in particolare, Trib. Napoli 13.5.2015, Trib. Arezzo 14.2.2013 e Trib. Cremona 1.10.2013. In una delle prime pronunce, Trib. di Rovereto 29.12.2013, ha così affermato: «il legislatore non è intervenuto sulle fonti delle obbligazioni e, in particolare, sull’art. 1173 c.c. il quale individua non solo il contratto e l’atto illecito ma anche ogni atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico; anche le obbligazioni di fonte legale (e non solo quelle di fonte contrattuale) sono disciplinate dall’art. 1218 c.c. e, per effetto della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 1978) è configurabile un rapporto obbligatorio di origine legale ogni qual volta un paziente si rivolga ad una qualche struttura sanitaria appartenente al servizio per ricevere le cure del caso, indipendentemente dalla conclusione di un contratto in senso tecnico».

Anche Trib. Bari 7.7.2015, ha aderito a questo orientamento, sostenendo che «non si può convenire con l’evoluzione giurisprudenziale seguita all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 3 L. n. 189/2012 (c.d. Legge Balduzzi), che avrebbe ricondotto la responsabilità del medico nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, atteso che la norma citata deve intendersi riferita soltanto ai casi di colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; ne consegue che, anche dopo l’entrata in vigore della c.d. Legge Balduzzi, la responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria è da qualificarsi come contrattuale».

Tale posizione è stata accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità: «l’articolo 3, comma 1, della Legge n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di esclude-re l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni» (Cass. n. 8940/2014).

Poiché, come detto, la legge Gelli non è applicabile alla fattispecie in esame, quanto precede appare sufficiente a rigettare l’eccezione di prescrizione avanzata dal dott. B. ed a fondare la responsabilità solidale di entrambi i convenuti. Diverso è, evidentemente il discorso per quanto riguarda la graduazione interna, posta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario, domanda che deve essere accolta considerato che nessuna negligenza è risultata imputabile al più generale svolgimento della prestazione assistenziale da parte della casa di cura, dovendo ricondursi l’inadempimento ad un inesatto svolgimento della prestazione chirurgica da parte del solo dott. B., come sul punto ha chiarito lo stesso CTU.

 

II.

Passando alla liquidazione del danno risarcibile in favore dell’attrice occorre evidenziare come lo stesso CTU abbia ridimensionato le conseguenze risarcibili causalmente connesse a colpa medica nell’ordine del 4-5% di danno biologico (vds. conclusioni p. 38 ove distingue un quadro menomativo complessivo da quello causalmente collegato alla sola prestazione sanitaria qui contestata). Attese le specificità del caso si adotterà per il calcolo del danno risarcibile, al fine di determinare un completo e non parziale ristoro delle lesioni subite, la misura del 5%.

Il CTU ha invece escluso una diminuzione della capacità lavorativa specifica di badante, mentre in assenza di prova più specifica, il periodo di inabilità temporanea già risulta risarcibile in relazione ai seguenti periodi di compromissione temporanea dell’integrità psico-fisica:

60 gg. di ITP al 75%;

60 gg. di ITP al 50%;

60 gg. di ITP al 25%.

Spese documentate e rimborsabili in Euro 8.129,94 senza necessità di ricorrere a spese mediche future.

In relazione alla liquidazione in termini monetari del danno, viene poi in rilievo l’art. 3 co. 3 della già citata Legge Balduzzi, ove si afferma che:

“il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo”.

Poiché nella fattispecie in esame ci si muove nell’ambito delle c.d. micropermanenti, è pertanto all’apposito decreto ministeriale attuativo dell’art. 139 Codice Assicurazioni che occorre rifarsi e, in particolare, a quello più recente: il D.M. 17 luglio 2017.

Ne consegue che, avuto riguardo all’età della paziente al momento dell’intervento, applicato l’aumento del 20% per la personalizzazione connessa alle particolarità del caso ed alle specifiche sofferenze di ordine soggettivo emerse dalla lettura dei dati clinici prodotti in giudizio, utilizzato uno dei più diffusi software di calcolo si ottiene, con somme già rivalutate alla data di pubblicazione della presente decisione, sulla scorta degli accertamenti del CTU sopra richiamati, l’importo risarcibile di € 19.341,97. Tale somma deve essere gravata degli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente decisione sino al soddisfo.

Nessun altro danno è stato provato o allegato in termini specifici e non apodittici.

Nessuna delle compagnie assicuratrici chiamate in giudizio è tenuta a rispondere in manleva: per quanto riguarda il medico dott. B., infatti, la polizza prodotta dalla A. M. contiene una espressa esclusione del c.d. primo rischio all’art. 16 nell’ipotesi in cui – come nella specie – vi sia una Casa di Cura solidalmente responsabile che non sia non insolvente; a sua volta, tuttavia, anche le polizze delle Compagnie assicuratrici chiamate in giudizio da M. C. Hospital s.p.a. sono limitate al c.d. “secondo rischio”, ciò che determina anche in questo caso l’assenza di copertura assicurativa.

Come detto, va invece accolta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario pure convenuto.

Le spese legali seguono la soccombenza e gravano sui due convenuti. La complessità di analisi contrattuale e la particolarità della fattispecie, giustifica l’integrale compensazione delle spese quanto alle chiamate in causa. Le spese di CTU gravano in via definitiva sui convenuti, in via solidale.

 

P.Q.M.

Il Tribunale di Ravenna, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa R.G. 365/2015, ogni diversa istanza, domanda ed eccezione respinta,

dichiara tenuti e condanna, per i titoli in motivazione, il dott. B. M. e M. C. Hospital s.p.a. a risarcire all’attrice T. R. la somma di Euro 19.341,97 oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente decisione al soddisfo;

dichiara tenuto e condanna il dott. M. B. a rifondere e tenere indenne M. C. Hospital s.p.a. di quanto eventualmente pagato all’attrice in dipendenza della condanna di cui al capo che precede;

dichiara tenuti e condanna i convenuti a rifondere a parte attrice le spese di lite, che liquida in complessivi Euro 5.621 (di cui Euro 786 per spese, Euro 4.835 per compensi), oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, oltre al rimborso delle spese di CTU nella misura liquidata e provvisoriamente sostenuta in corso di causa;

compensa le spese quanto alle terze chiamate compagnie assicuratrici.

Fondo di indennizzo e fondo di garanzia per i consumatori… L’America non è più così lontana

Anni duri quelli appena trascorsi per i consumatori italiani: repentinamente si sono abbattuti su di essi default, crack, scandali, casi di corruzione e clamorose speculazioni finanziarie che hanno avuto epiloghi a volte sconcertanti. I mass media hanno giustamente indugiato sul tema, attirando grande attenzione e puntando il dito sui colossi della finanza, sottolineando, spesso, il “dramma di un investimento sbagliato”.

Sull’onda dello scandalo, la politica non ha trascurato di avanzare proposte a tutela dei consumatori frodati ma, come spesso capita, quando il fine è solo il risultato elettorale, il prodotto finale è insufficiente ed incompleto.

Il riferimento è al “Fondo per l’indennizzo dei risparmiatori vittime di frodi finanziarie”[1], introdotto con la Finanziaria del 2006 (L. n. 26/05).

Il nostro paese – così anche in altre realtà europee ed americane – non è nuovo ad iniziative e strumenti di tutela simili: ben noti sono il “Fondo di garanzia per le vittime della strada”, il “Fondo di garanzia per le vittime dell’usura”, il “Fondo di garanzia per le vittime della mafia”, etc. Si tratta di iniziative mirate, le quali trovano il loro significato nella esigenza di pubblica solidarietà che determinate categorie di soggetti, spesso anche in specifiche situazioni di luogo e di tempo, necessitano, anzi reclamano.

Quella riservata alla categoria dei consumatori “frodati” da frodi finanziarie è, invece, un’iniziativa che apre varchi molto ampi e discutibili proprio in termini di politica sociale.

Il principio ispiratore è quello del no-fault, finalizzato ad indennizzare (n.b. non a risarcire) il maggior numero di danneggiati anche prima che la prova della responsabilità del danneggiante sia stata raggiunta; ciò può rispondere a diverse esigenze, anche di natura tecnico-organizzativa. Innanzitutto, si è cercato di offrire ai consumatori una via alternativa, anche se non esclusiva né preclusiva, proprio perché spesso è l’accesso alla giustizia ad essere difficile o comunque più dispendioso rispetto a quello che costituisce il pregiudizio subito.

Su tale scia, anche i sindacati avevano avanzato proposte tese a facilitare l’accesso alla giustizia prevedendo, ad esempio, l’esenzione dal pagamento del contributo unificato per le controversie relative alle frodi in materia consumeristica, sgravi fiscali per le banche che decidessero di conciliare, nonché prolungamento del periodo di rientro dalle minusvalenze derivanti dalla perdita di valore dei titoli emessi da soggetti caduti in default[2].

Ma a chi giova l’iniziativa? Certamente ai “risparmiatori che, investendo sul mercato finanziario, sono rimasti vittime di frodi finanziarie”[3], con specifico allargamento della tutela ai proprietari dei bond argentini caduti in default; a prima vista una schiera abbastanza nutrita, ma che subisce una scrematura se pensiamo a tutti coloro che, volenti o nolenti, hanno accettato la proposta transattiva della Repubblica argentina scambiando i titoli defaulted con titoli aventi scadenza media decennale! Altra fonte di dubbio è la concorrenza e l’armonizzazione del “Fondo di indennizzo” con il “Fondo di garanzia” previsto dal generale riordino del settore bancario e creditizio operato alla fine del 2005: mentre il primo risponde, come detto, alla logica del no-fault, il secondo costituisce il tradizionale corollario all’esperimento di una class action, che però nel nostro ordinamento sembra essere tramontata definitivamente, almeno nel senso americano del termine.

Le peculiarità dei due Fondi evidenziano soprattutto differenze che altro non faranno se non ingenerare una sovrapposizione di iniziative ed una disparità di trattamento per i consumatori. Infatti, il “Fondo di indennizzo” è finanziato dagli importi dei depositi e conti correnti dormienti del comparto bancario, assicurativo e creditizio, mentre il “Fondo di garanzia” solo dalle somme versate a titolo di risarcimento e restituzioni dai soggetti ed enti responsabili in forza di una sentenza definitiva, con possibilità di surroga da parte della Consob, rafforzando anche la finalità educativa e moralizzatrice del settore finanziario.

Il “Fondo di indennizzo” presuppone semplicemente una frode finanziaria, nemmeno accertata, mentre l’operatività del “Fondo di garanzia” è subordinata ad un accertamento giudiziale definitivo ed irrevocabile sulla responsabilità di chi poi sarà chiamato a risarcire. E’ proprio per questo che la disciplina generica fissata dalla legge finanziaria dovrà subire una specificazione efficace in sede regolamentare, per non vanificare un buon proposito con una legislazione confusa ed iniqua.

Infatti, mentre il Fondo di garanzia è definito con una certa esaustività nella legge sul risparmio, il Fondo di indennizzo trova in essa una disciplina soltanto generica che, al fine di garantire una concreta tutela al consumatore-risparmiatore, necessità di un intervento regolatore e chiarificatore da parte del Governo[4].

Il primo punto fondamentale da chiarire è la tipologia di soggetti che potranno usufruire del Fondo. Tale necessità discende dal fatto che l’indennizzo potrà essere erogato a prescindere dall’accertamento della responsabilità civile del danneggiante.

In secondo luogo, occorrerà definire i limiti temporali della operatività del Fondo, cioè bisognerà stabilire se esso dovrà porsi a garanzia di tutti i danni discendenti da un determinato fatto oppure di tutte le conseguenze di una determinata attività. La definizione temporale in oggetto sarà un presupposto indispensabile per garantire la finanziabilità del fondo.

Benché il Fondo di indennizzo, così come disegnato dalla legge finanziaria, si riferisca sia ai risparmiatori danneggiati dalle frodi finanziarie sia ai risparmiatori, specificamente danneggiati dal default dei Tango Bond, una regolamentazione temporale del medesimo pare indispensabile.

Altra problematica, da chiarirsi con l’auspicabile intervento governativo, riguarda il tipo di prova che il risparmiatore dovrà fornire per essere ammesso ad usufruire del Fondo di indennizzo. Come prova non potrà, peraltro, essere richiesta una sentenza passata in giudicato, altrimenti il Fondo di indennizzo diventerebbe un inutile doppione del Fondo di garanzia.

Ulteriore questione è stabilire quale tipologia di danno il fondo sarà tenuto ad indennizzare.

Infatti, mentre non sembrano esserci problemi per quanto riguarda l’indennizzabilità del danno patrimoniale, ben più complessa è la copertura del danno non patrimoniale (danno morale, esistenziale, ecc), del quale ultimo, oltre tutto, spesso è difficilissimo fornire la prova anche in sede giudiziaria.

Infine, resta da disciplinare con attenzione la modalità di finanziamento del Fondo stesso.

Per tale finanziamento la legge finanziaria, come si è detto, ha optato per l’impiego dei conti correnti cd. dormienti. Questa tipologia di finanziamento, seppur innovativa, deve contemperare l’esigenza di reperire con celerità denaro sufficiente alla funzionalità del Fondo e, al contempo, l’esigenza sacrosanta di garantire i depositi bancari dei privati cittadini.

Per concludere, la scelta compiuta dal legislatore italiano, il quale ha evitato di effettuare una riforma processuale sul modello della Class Action, non necessariamente produrrà risultati meno incisivi sotto il profilo della tutela del risparmiatore, qualora il regolamento di emanazione governativa intervenga celermente ed esaustivamente.

[1]                Elisabetta Bellini, Il fondo per l’indennizzo dei risparmiatori vittime di frodi finanziarie, in Danno e responsabilità n. 10 del 2006, pp. 931 ss.

[2]              “Indennizzi per i risparmiatori vittime di frodi finanziarie: occhio alle false promesse della Finanziaria 2006”, in www.cgil.it

[3]              Legge n. 26 del 2005, commi 343 e 345

[4]              Si veda ampiamente sul punto, di Elisabetta Bellini, Il fondo per l’indennizzo dei risparmiatori vittime di frodi finanziarie, op. cit.

L’associazionismo dei consumatori sul territorio

L’associazionismo consumeristico ha avuto un forte radicamento anche sul territorio in ragione tanto del coagularsi delle istanze degli utenti intorno a progetti, idee e persone operanti in ambito locale, quanto in forza di leggi ed istituzioni regionali, provinciali e comunali che hanno favorito lo sviluppo ed il consolidamento delle nascenti strutture organizzative locali.

Nella fattispecie, a livello di normazione cd. secondaria (inferiore agli atti normativi nazionali) sono apparse una serie di leggi regionali che hanno provveduto a disciplinare numerosi aspetti dei rapporti di consumo e degli strumenti a disposizione delle organizzazioni consumeristiche territoriali.

L’attività delle amministrazioni comunali e provinciali si sono concentrate nella istituzione di uffici per la tutela del consumatore ovvero di accordi di partenariato con i livelli comunali e provinciali delle associazioni consumeristiche di rilevanza nazionale.

La legislazione regionale, non avendo competenze esclusive sui temi del consumerismo, si è occupata prevalentemente di finanziamento di associazioni ovvero dell’istituzione di organismi regionali di natura consultiva in materia di diritto dei consumatori.

La Regione Lazio, tra le prime in senso cronologico, ha istituito, con Legge regionale n. 44 del 10 novembre 1992, il CRUC – Comitato regionale degli utenti e dei consumatori – al fine di assicurare la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti dei beni e servizi, da un alto, e di promuovere l’associazionismo tra i consumatori, dall’altro[1].

Il Comitato è composto dai rappresentanti delle associazioni degli utenti e consumatori e da cinque membri esperti in materia nominati dal Presidente della Giunta regionale.

Nel 2005 è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra la Regione e le associazioni regionali dei consumatori e degli utenti allo scopo di incrementare le attività di sostegno, informazione, difesa e tutela dei consumatori mediante l’elaborazione di un programma complessivo pluriennale.

All’art. 8 della Legge regionale n. 44/1992, istitutiva del CRUC, è previsto un programma di interventi finanziari di sostegno alle attività delle associazioni dei consumatori ammesse nel CRUC[2].

Alla determinazione del capitolo di spesa annuale si provvede con legge della Regione Lazio di approvazione del bilancio dei singoli esercizi finanziari.

Anche la Regione Lombardia[3] ha operato sulla falsariga della Regione Lazio.

Il riconoscimento del ruolo e delle attività delle associazioni dei consumatori e degli utenti viene attuato attraverso l’istituzione dell’Elenco delle associazioni riconosciute dalla Regione Lombardia, nonché la costituzione del Comitato Regionale per la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti (CRCU) che, come precisato nel sito web della regione (sub Tutela dei consumatori ed utenti – associazioni regionali), svolge funzioni che “non si esauriscono nel supporto consultivo o nel racconto e collaborazione con gli altri soggetti preposti alla tutela del consumatore, ma si estendono alla formulazione di proposte e contributi utili alla definizione della programmazione regionale e in ordine alle leggi ed ai regolamenti di significativo rilievo nelle materie oggetto della legge; esso è composto dall’Assessore competente per materia e dai rappresentanti delle Associazioni riconosciute nell’elenco stesso”.

La legge regionale regolamentatrice della materia[4] è la n. 6 del 3 giugno 2003, è rubricata come “Norme per la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti” ed al suo art. 1 ha come finalità, in particolare, la tutela della salute e dell’ambiente, la sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi, la corretta informazione ed educazione al consumo, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali. Conseguentemente, la Regione si impegna a promuovere lo sviluppo dell’associazionismo di consumatori ed utenti, nel rispetto dell’autonomia e indipendenza delle singole associazioni, l’azione degli enti pubblici e dei soggetti privati, valorizzando la collaborazione con il sistema camerale e lo sviluppo di azioni coordinate tra i vari soggetti coinvolti.

All’art. 2 della legge si sancisce che la Regione sostiene l’attività delle associazioni senza scopo di lucro con ad oggetto la tutela dei consumatori e degli utenti, se in possesso dei requisiti descritti nel medesimo articolo di legge.

Tali associazioni vengono iscritte in apposito elenco, istituito presso la Direzione competente della Giunta regionale, che viene aggiornato annualmente.

L’iscrizione costituisce requisito necessario e sufficiente all’accesso ai finanziamenti regionali.

Con l’art. 3 è stato istituito il Comitato regionale per la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti, con compiti di concorrere alla definizione delle linee di programmazione regionale e alla formulazione di proposte di leggi e regolamenti in materia, in particolare in tema di informazione ed educazione dei consumatori, proporre alla Giunta regionale indagini, studi e ricerche sulla tutela dei consumatori, collaborare con le Camere di Commercio, promuovere il coordinamento tra le varie associazioni, curare i rapporti con organismi analoghi di altre regioni in ambito nazionale ed europeo, esaminare l’andamento generale dei prezzi dei prodotti e delle tariffe, proporre azioni coordinate con imprese e pubbliche amministrazioni.

In esecuzione al dettato della legge regionale ed in forza del Regolamento regionale 1 ottobre 2003, n. 21 circa l’Elenco regionale delle associazioni dei consumatori e degli utenti si è data concreta attuazione al predetto Comitato regionale (sinteticamente CRCU) con DPGR (decreto presidente giunta regionale) 14 luglio 2005, n. 11161[5], in cui, tra l’altro, si è indicata la composizione, individuati i membri di appartenenza e nominato il Presidente nella persona dell’Assessore al Commercio, Fiere e Mercati.

Per l’effetto, le associazioni, iscritte nel predetto Elenco, hanno indicato i loro rappresentanti presso il Comitato e, tra di essi, è stato nominato il vice-presidente.

Ebbene, alla luce degli esempi richiamati in materia, si apprezza come gli organismi pubblici locali abbiano oramai preso atto del fenomeno consumeristico, come fenomeno storico, politico e sociale,  abbiano consentito il suo inserimento nel moto dei processi decisionali democratici, ne assicurino la sopravvivenza e la crescita anche tramite strumenti pubblici di incentivazione e ne favoriscano le azioni collettive attuabili a livello locale, sulla falsariga dei riconoscimenti e delle modalità di azione del fenomeno consumeristico nazionale.

[1] Cfr. il sito ufficiale della Regione Lazio www.regione.lazio.it

[2] La Legge regionale n. 44/192 prevedeva, nelle sue disposizioni finanziarie, che per l’attuazione del programma della legge fosse stanziata una spesa di Lire 400 milioni

[3] Cfr. il sito ufficiale della Regione Lazio www.regione.lombardia.it

[4] La legge è stata pubblicata in BURL – Bollettino Ufficiale Regione Lombardia n.  23 del 6 giugno 2003

[5] Il decreto è stato pubblicato in BURL – Bollettino Ufficiale Regione Lombardia n.  29 del 18 luglio 2005

 

Tutela dei consumatori e tutela delle associazioni dei consumatori

Al fine di tutelare al meglio i diritti dei consumatori, le organizzazioni che in Italia si occupano della tutela dei consumatori hanno mirato sempre più a veder riconosciute prerogative, diritti e poteri che consentissero la possibilità di monitoraggio, ricognizione, indagine ed, eventualmente, azione in difesa dei consumatori.

A ciò si è puntato da parte dell’associazionismo italiano attraverso la ricerca e la conquista del riconoscimento statale, in particolare mediante l’iscrizione nello speciale elenco tenuto dall’allora Ministero delle Attività Produttive e l’inserzione di diritto nel gruppo delle associazioni componenti il Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti (CNCU)[1].

Riconoscimento pubblico fondato sul requisito della esclusività dell’oggetto: ai fini della qualifica di associazione dei consumatori riconosciuta ed iscritta nell’elenco del Ministero costituisce presupposto indefettibile il previo accertamento che l’ente richiedente l’iscrizione si occupi esclusivamente di consumatori ed utenti come definiti nell’art. 2 lett. a) della legge n. 281/98 e che, concordemente, abbia natura di “formazione sociale che abbia per scopo statutario esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degli utenti” (art. 2 lett. b) della stessa legge[2].

Non solo. La legge-quadro del 1998 ha introdotto i corollari necessari di tale riconoscimento: la legittimazione ad agire, il diritto al finanziamento pubblico.

Tali caratteristiche non solo hanno consentito ai soggetti beneficiati di sopravvivere, ma anche di poter lavorare, espandersi, conquistare spazi sui media, imporsi come un nuovo attore nell’agone lato sensu politico-economico, oltre che nel palcoscenico mediatico.

Del resto, gli strumenti per agire sono semplici, essenziali ma forti: i contributi pubblici consentono di “vivere” e la legittimazione ad agire in giudizio spaventa i produttori ed i professionisti.

Circa il finanziamento o sostentamento economico pubblico, giova rammentare che esso è previsto per legge, attuato per volontà degli enti pubblici (anche locali) e raccolto per libera adesione delle associazioni.

Trasparenza vuole che si rammenti come tale finanziamento pubblico per le associazioni si aggiunge alle quote associative richieste ai singoli privati fruitori dei servizi offerti dalle associazioni ed agli introiti derivanti dall’esecuzione di progetti locali, nazionali ed europei.

Intanto, come già la legge n. 281 del 1998, anche l’art. 138 del Codice del consumo ha attribuito alle associazioni aderenti al CNCU (quelle cd. riconosciute) le agevolazioni ed i contributi previsti dalla normativa di settore per le iniziative editoriali[3].

La norma è evidentemente collegata alla rilevanza che il legislatore ha attribuito all’informazione del consumatore inteso come strumento fondamentale di autotutela.

Altra fonte di finanziamento per le associazioni componenti il CNCU è prevista dall’art. 148 della Legge 23 dicembre 2000, n. 388 che prevede la destinazione degli introiti derivanti dalle sanzioni irrogate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato alle iniziative a vantaggio dei consumatori.

Le somme sono rassegnate con decreto del Ministero dell’Economia ad un apposito fondo iscritto nello stato di previsione del Ministero delle Attività produttive, il quale individua, con decreto ad hoc, le iniziative cui destinare detti fondi, previa consultazione delle competenti Commissioni parlamentari.

I benefici finanziari pubblici sono assicurati anche dalla Legge 5 marzo 2001, n. 57 che, al suo art. 16, ha previsto il finanziamento (all’epoca pari a tre miliardi di lire) di progetti promossi dalle sole associazioni dei consumatori e degli utenti iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 della Legge-quadro[4].

Anche in questo caso, va da sé che i contributi e le agevolazioni sono concesse alle associazioni che ne hanno i requisiti.

Meno noto, in relazione a tale finanziamento pubblico, è quali siano i criteri di assegnazione, chi stabilisca i settori di intervento, a chi si renda il conto, se vi siano sanzioni in caso di cattiva o inefficiente gestione del denaro pubblico.

Di contro, viene pure da chiedersi se sia corretto un organo statale abbia il diritto di giudicare l’operato delle associazioni.

Di certo sarebbe salutare che, come in letteratura si ritiene e la Storia ha confermato, che “qualcuno vigili anche sui controllori”, al fine di evitare che fenomeni di compiacenza da parte dei cd. controllori verso i cd. controllati rendano velleitario e pleonastico il sistema di garanzie predisposto dall’ordinamento.

Nel caso di specie (tutela del consumatore), se ciò accadesse, lascerebbe privi di tutela beni ed interessi come la salute collettiva, la qualità e sicurezza di prodotti e servizi di primaria importanza, l’informazione e la corretta pubblicità commerciale, l’erogazione di servizi pubblici secondo standard  di qualità ed efficienza.

Peraltro, i diritti ed i vantaggi di cui si discorre concernono soltanto le cd. associazioni dei consumatori riconosciute.

Le altre associazioni non solo non esistono ufficialmente, non hanno diritto a contributi pubblici e, soprattutto, non potranno mai preoccupare le imprese perché, prive della legittimazione ad agire, giudiziariamente rappresentano tigri di carta.

Pertanto, le associazioni dei consumatori cd. riconosciute – vale a dire, il gruppo storico di esse che siede presso il Ministero riunite nel CNCU – hanno una enorme responsabilità verso la collettività, in quanto esse hanno preteso e conseguito non solo che fossero riconosciute dallo Stato e che fossero riunite in un organismo statale, ma pure che ricevessero contributi pubblici diretti.

Tuttavia, in questo modo un fenomeno di associazionismo sorto dal basso, intriso del salutare humus del contro-potere, con l’ambizione di rappresentare ed integrare in campo consumeristico il “potere dei senza potere”[5] rischia di essere anestetizzato dalla eccessiva contiguità, oramai sancita per legge e per consenso delle associazioni stesse, con i pubblici poteri e con il mondo dei produttori.

In realtà, esistono numerose altre realtà, organizzazioni ad oggetto sociale più ampio, associazioni di consumatori stesse ma non riconosciute, associazioni ambientaliste che, pur non disponendo di un patrimonio di esperienze e di iscrizioni paragonabili a quello di altri paesi comunitari o a quello nord-americano, si collocano tuttavia come validissimi interlocutori dei pubblici poteri.

A questo punto, se le associazioni consumeristiche nate per fare le pulci ai soggetti da controllare, quali lo Stato ed i pubblici poteri, nazionali e locali, esistono solo se questo le riconosce e le alimenta, resta da chiedersi: chi controlla i controllori?

Se il “quarto potere” dei consumatori, con la missione di monitorare l’operato del mondo produttivo e le performance dei servizi pubblici, rischia di essere, in questo modo, ingabbiato ed annacquato, chi svolgerà la stessa funzione sociale con la massima indipendenza richiesta?

[1] In ordine al CNCU, si rinvia a quanto già detto nell’ultimo numero de Il Laboratorio dei 100, nella medesima rubrica Diritto, dogmi e finzioni

[2] Lo ha ribadito il TAR Lazio, Sezione III Ter, con sentenza n. 7103 dell’8 agosto 2006, cfr. www.altalex.it, n. 1524 del 15 settembre 2006, su ricorso della USICONS – Associazione per la tutela dei diritti e degli interessi degli utenti di servizi pubblici e privati e dei consumatori avverso il Ministero delle Attività Produttive

[3] I criteri e le modalità di tali agevolazioni e contributi sono stati definiti con Dpcm 15 marzo 1999, n. 218

[4] Ha individuato i criteri per il finanziamento di tali progetti il D.M. del Ministero dell’Industria 24 maggio 2001, n. 273.  In esso, si precisa che la richiesta di contributo va inoltrata al Ministero per le Attività Produttive – Direzione Generale per l’armonizzazione del mercato e la tutela dei consumatori – Ufficio Politiche nazionale e diritti dei consumatori. Sarà questo ufficio a decidere sulla idoneità del progetto avanzato dalla associazione e della ammissione al contributo statale. Il contributo, secondo il decreto ministeriale del 2001, prevedeva  la misura massima di 300 milioni di lire a progetto.

[5] V. Havel, Il potere dei senza potere.

Associazionismo in difesa dei consumatori: movimento d’opinione, contro-potere, lobby, organizzazioni di Stato, enti collettivi a rilevanza pan-europea?

Circa le associazioni dei consumatori, il Codice del consumo (titolo I, parte V, artt. 136-138) ha recepito quanto già introdotto dalla legge 30 luglio 1998, n. 281, abrogata dall’art. 146, co. 1, lett. f) del Codice stesso, che aveva previsto: a) la costituzione del Consiglio Nazionale Consumatori ed Utenti, b) l’individuazione delle associazioni maggiormente rappresentative, c) la previsione di agevolazioni e contributi alle attività delle associazioni.

Con la Legge-quadro n. 281/1998, che ha riconosciuto i diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti, per la prima volta nel nostro ordinamento le associazioni dei consumatori e degli utenti ottenevano definizione, inquadramento sistematico e legittimazione ad agire in giudizio a tutela di interessi diffusi[1]. Non solo, essa ha costituito il momento e lo strumento di riconoscimento da parte dei pubblici poteri del ruolo dell’associazionismo consumeristico.

L’art. 2, co. 1, lett. b) della legge definiva tali associazioni – con un non involontario riferimento alle persone giuridiche tutelate dalla nostra Costituzione (art. 2) – “le formazioni sociali che abbiano per scopo statutario esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degli utenti”.

Lo scopo statutario assurgeva quindi ad elemento caratterizzante dette associazioni. Esso doveva essere esclusivo, soltanto rivolto alla tutela degli interessi e dei diritti dei consumatori[2].

Fra esse, ai sensi dell’art. 5, le associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale vennero inserite in un apposito elenco tenuto dall’allora Ministero dell’Industria, presso il quale ha sede e formazione il CNCU, acronimo del Consiglio Nazionale Consumatori ed Utenti, composto dai rappresentanti di tali associazioni ed istituito con la finalità di tracciare in ambito nazionale le linee guida di tutela del consumatore.

La previsione dell’art. 5 ha avuto una importanza strategica poiché, ai sensi dell’art. 3, solo alle associazioni iscritte nell’elenco viene attribuita la legittimazione ad agire per la tutela degli interessi collettivi in via giudiziaria, con azione inibitoria, anche cautelare, ed in via conciliativa innanzi alle Camere di commercio.

La stessa norma ha individuato i criteri per l’iscrizione[3] delle associazioni rappresentative:

  • costituzione da almeno tre anni;
  • statuto ad ordinamento interno democratico;
  • scopo esclusivo di tutela dei consumatori ed assenza di scopo di lucro;
  • numero di iscritti non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione nazionale con presenza in almeno cinque regioni italiane;
  • presentazione di un bilancio annuale;
  • svolgimento di attività continuativa nei tre anni precedenti la costituzione dell’associazione;
  • assenza di condanne dei legali rappresentanti;
  • incompatibilità assoluta con la qualifica di imprenditore o amministratore di imprese con la funzione di legale rappresentante dell’associazione.

Inoltre, alle associazioni è preclusa ogni attività di promozione o pubblicità commerciale avente ad oggetto beni o servizi prodotti da terzi e non ha alcuna connessione di interessi con imprese di produzione e di distribuzione.

Dalla norma si evince la volontà del legislatore di puntare sulla effettiva rappresentatività ed un reale radicamento sul territorio degli organismi che assumono di costituire centri di tutela di interessi diffusi nel settore consumeristico.

La rigida opzione della predeterminazione normativa dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco ha presentato, da subito, controindicazioni in dottrina già rilevate[4].

Infatti, con riguardo al requisito numerico degli iscritti, la preferenza e la prevalenza data all’elemento quantitativo può andare a detrimento della qualità dell’attività di tutela posta in essere dall’associazione soprattutto per le organizzazioni che hanno dedicato particolare attenzione ad un determinato ambito di tutela.

Le associazioni di cui sopra hanno ottenuto il riconoscimento tramite l’iscrizione nell’elenco tenuto dal Ministero delle Attività Produttive e oggi dello Sviluppo Economico, che è subordinato al possesso di determinati requisiti previsti dal decreto ministeriale n. 20/1999. Tutte le associazioni iscritte in detto elenco fanno parte di diritto del Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti.

A rigore, la precedente normativa sui contratti dei consumatori, L. 6 febbraio 1996, n. 52[5], introduttiva degli artt. 1469 bis e ss. del codice civile, aveva già fornito – senza alcuna individuazione e caratterizzazione – alle associazioni genericamente rappresentative dei consumatori una legittimazione ad agire avverso il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzassero clausole abusive nelle loro condizioni generali di contratto (art. 1469 sexies  c.c.).

Tuttavia, la norma della Legge-quadro ha scolpito le associazioni legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi e diffusi con requisiti ferrei essenzialmente rivolti ad accertare la rappresentatività della associazione stessa, nonché la sua iscrizione nell’elenco delle associazioni introdotto dall’art. 5 delle legge stessa.

Viceversa, la legge del 1996 non prevedeva né requisiti né accertamenti degli stessi, concedendo una ampia potestas agendi a destinatari non meglio individuati.

Tali diverse discipline delle medesime associazioni, con parziali diverse attribuzioni, ha generato un contrasto interpretativo[6] risolto soltanto con l’introduzione del Codice del Consumo[7].

Infatti, i dubbi ermeneutici derivati dal coordinamento di queste due norme ai fini di individuare il corretto concetto di rappresentatività furono fugati dalla stessa Relazione illustrativa al Codice del Consumo e, soprattutto, dall’art. 137 del Codice, occorrendo necessariamente dare rilievo alla predetta iscrizione, dovendo tale legittimazione far perno su un supporto legislativo.

Con la previsione del Codice del consumo, si precisa infatti che solo le associazioni di cui all’art. 137 sono legittimate ad intraprendere l’azione cd. inibitoria, di cui all’art. 37 del Codice stesso, vale a dire quella introdotta con l’art. 1469 sexies c.c., unitamente alle associazioni rappresentative dei professionisti ed alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura[8].

A questo aggiungasi che, oggi, la iscrizione dell’associazione nell’elenco dell’art. 137 fa sì che il Ministero la comunichi alla Commissione europea al fine di far decorrere l’automatica iscrizione nel parallelo elenco degli enti legittimati a proporre azioni inibitorie a tutela degli interessi collettivi dei consumatori istituito presso la Commissione europea.

Con ciò le associazioni rappresentative secondo i canoni dell’art. 137 perdono il carattere strettamente nazionale divenendo legittimate a promuovere azioni di tipo inibitorio in tutti i Paesi dell’Unione Europea.

Per l’effetto, con tale canonizzazione giuridica e culturale si è compiuto l’ultimo passo verso la istituzionalizzazione-statalizzazione di tali formazioni sociali che, sorte sull’onda di una spontanea reazione alla forza d’urto ed alla invadenza delle politiche commerciali del mondo delle imprese, della massificazione dei rapporti produttore-consumatore, della scarsa qualità nell’erogazione dei servizi pubblici hanno progressivamente battagliato per la conquista di spazi di visibilità, credibilità e, dunque, rappresentatività.

Al punto da ottenere, nel biennio 1996-98, quel riconoscimento pubblico che, al livello più alto dell’ordinamento, ancora mancava e che il Codice del Consumo nel 2005 ha ribadito.

[1] L. 30 luglio 1998, n. 281, come modificata dalla L. 24 novembre 2000, n. 340, dal D. Lgs. 23 aprile 2001, n. 224, dalla L. 1 marzo 2002, n. 39

[2] Successivamente è intervenuta la pronuncia del TAR Lazio, sezione II ter, sentenza 8 agosto 2006, n. 7103, che ha ribadito come ai fini della qualifica di associazione dei consumatori riconosciuta ed iscritta nell’elenco tenuto dal Ministero costituisce presupposto indefettibile il previo accertamento che il soggetto richiedente l’iscrizione si occupi esclusivamente di consumatori ed utenti come definiti nell’art. 2 delle legge n. 281/98. vale a dire, prevale l’accertamento in astratto del possesso del requisito dell’esclusività dell’oggetto sulla dimostrazione in concreto della sola attività di pertinenza propria delle associazioni consumeristiche, cfr. www.altalex.it , n. 1524 del 15.09.2006

[3] il Regolamento recante norme per l’iscrizione nell’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale è stato dettato dal D.M. 19 gennaio 1999, n. 20.  Nel Regolamento è precisato che l’elenco è tenuto presso la Direzione Generale per l’Armonizzazione e la Tutela del Mercato del Ministero delle Attività produttive

[4] R. Colagrande, Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in Nuove leggi civ. comm., 1998, p. 734 ss.

[5] di attuazione della Direttiva comunitaria n. 93/13/CEE del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori

[6] ex multis, cfr. E. Graziuso, La tutela del consumatore contro le clausole abusive, Milano, 2002, p. 25 ss., pp. 211 ss.

[7] D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206

[8] E. Sacchettini, A numero chiuso i legittimati ad agire, in Guida al diritto, n. 48/2005, p. 113-4

L’azione di regolamento di confini

  1. Inquadramento sistematico.

Le azioni a difesa del diritto di proprietà si definiscono petitorie in quanto mirano ad accertare ed affermare la titolarità del diritto di proprietà contro chi la contesti direttamente o indirettamente (vantando diritti reali limitati sul bene in questione).

  • Azione di rivendica – art. 948 c.c.
  • Azione negatoria – art. 949 c.c.
  • Azione di regolamento di confini – art. 950 c.c.
  • Azione di apposizione di termini – art. 951 c.c.
  1. L’azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.).

L’azione di regolamento di confini è l’azione volta alla definizione giudiziale di un confine incerto (art. 950 c.c.).

L’azione rientra nell’ambito delle azioni reali e, in particolare, nell’ambito delle azioni a difesa della proprietà. L’azione tutela infatti un interesse del proprietario, cioè l’interesse alla certa delimitazione del suo fondo.

Legittimati attivi e passivi dell’azione sono i proprietari dei fondi confinanti.

In dottrina, l’azione di regolamento di confini è stata definita un relitto storico e una “sottospecie” dell’azione di rivendicazione. Rispetto a questa azione essa conserva tuttavia una propria autonomia, in quanto non è diretta al recupero del bene ma alla eliminazione di una particolare situazione d’incertezza (l’incertezza del confine).

Quindi, si distingue dalla rivendica innanzitutto per l’oggetto: essa mira a risolvere una lite sulla sola estensione del diritto di proprietà (che non è posto in discussione), mentre la rivendica presuppone una contestazione sul titolo del diritto stesso.

Essa è azione di “accertamento” e non muta natura neppure allorché l’attore richieda contestualmente anche il rilascio delle zone di terreno possedute dal vicino indebitamente (questa è una conseguenza naturale dell’azione).

Essa si distingue anche rispetto all’azione di mero accertamento della proprietà in quanto tende ad eliminare un’incertezza che non concerne la titolarità del diritto di proprietà ma i limiti del fondo che ne è oggetto.

Secondo una formula dottrinaria, recepita dalla giurisprudenza, l’azione di regolamento di confini non presuppone un “conflitto di titoli” ma un “conflitto di fondi”, poiché non vi è controversia sui titoli di proprietà delle parti ma sui confini che in base a tali titoli dividono le rispettive proprietà.

Mentre l’azione di rivendica presuppone un conflitto di titoli, determinato dal convenuto che nega la proprietà dell’attore contrapponendo al titolo da lui vantato il suo possesso della cosa ovvero un proprio diverso ed incompatibile titolo di acquisto, nella azione di regolamento di confini i titoli di proprietà non sono controversi e la contestazione attiene alla delimitazione dei rispettivi fondi (conflitto tra fondi) per l’incertezza dei confini,  oggettiva (derivante dalla promiscuità del possesso nella zona confinaria) o soggettiva (provocata dall’assunto attoreo di non corrispondenza del confine apparente con quello reale).

Il regolamento di confine può aver luogo anche mediante un accordo dei proprietari interessati, inquadrabile tra i negozi d’accertamento. L’accertamento convenzionale del confine non ha efficacia costitutiva ma ha valore di prova tra le parti.

  1. L’incertezza sul confine.

L’azione di regolamento dei confini presuppone un’incertezza oggettiva e soggettiva sul confine del fondo, ossia un’incertezza derivante dalla mancanza di un limite apparente o un’incertezza soggettiva, derivante dalla contestazione del limite apparente.

Una tesi, che ha trovato credito anche in dottrina recente, ammette l’azione di regolamento di confini solo in presenza di un’incertezza oggettiva del confine, posseduto promiscuamente dai confinanti.

La giurisprudenza si è però decisamente orientata a ravvisare gli estremi dell’azione di regolamento di confini anche quando sussista un’incertezza soggettiva sul confine, a prescindere da una situazione di possesso promiscuo.

In aderenza a questo orientamento l’azione rientra nello schema del regolamento di confini anche quando il proprietario lamenti l’usurpazione di una striscia di terreno confinante, sempreché il convenuto non contesti il titolo di acquisto dell’attore ma opponga un titolo di acquisto poziore.

Qui l’azione di regolamento dà luogo ad un conflitto di titoli, ma l’orientamento è da approvare perché l’azione è pur sempre diretta a definire un confine incerto. Va anche considerato che assegnare al confinante l’onere probatorio che grava sul rivendicante, ossia l’onere di una rigorosa prova della proprietà risalente ad un acquisto originario, significherebbe metterlo in una posizione di squilibrio processuale non giustificata dalle ragioni di tutela processuale del convenuto.

  1. L’oggetto dell’azione.

Oggetto dell’azione è la fissazione giudiziale del confine tra fondi contigui. Si deduce pertanto che la sentenza ha natura ‘dichiarativa e ricognitiva’.

Oggetto della domanda può anche essere la condanna del vicino a restituire all’attore la striscia di terreno risultante di sua proprietà a seguito della fissazione della linea di confine.

La presente azione ha la connotazione di un’azione reale recuperatoria, da cui deriva, oltre la demarcazione del confine tra due fondi, anche il rilascio di aree occupate dal vicino che non ne è proprietario, essendo il rilascio di tali porzioni possedute dal confinante conseguenza dell’istanza principale di esatta determinazione del confine. Pertanto, nell’ipotesi in cui il fondo oggetto della sentenza di rilascio ha cessato di essere nella disponibilità del convenuto, è applicabile, a causa del carattere reale e recuperatorio dell’azione, la particolare norma di cui all’art. 948, co. 1, c.c., ipotesi che legittima la richiesta di pagamento del controvalore del bene usurpato.

Si reputa che in tal caso la restituzione sia solo un effetto secondario discendente dall’accoglimento della domanda principale. Occorre per altro che la restituzione abbia costituito oggetto della domanda, la cui proposizione non contiene implicitamente la domanda di rilascio della porzione di fondo eventualmente risultante occupata dal convenuto.

  1. L’onere probatorio. La cd. duplicità dell’azione.

L’autonomia dell’azione rispetto alla rivendicazione rileva anche sul piano probatorio. Fondamento dell’azione è pur sempre il diritto di proprietà, e di questo diritto l’attore deve dare la prova.

Non essendo tuttavia oggetto di contestazione la titolarità del diritto, ma solo i confini dell’immobile, è sufficiente per l’attore provare un valido titolo di acquisto, mentre in ordine all’ubicazione dei confini può essere addotta qualsiasi prova.

La norma sull’onere probatorio gravante sull’attore si ritiene che trovi una deroga in ragione della duplicità dell’azione di regolamento di confini. L’azione sarebbe duplice nel senso che ciascuna parte avrebbe il medesimo interesse alla definizione dei confini. Conseguentemente, si afferma, su ciascuna grava il medesimo onere probatorio e il giudice è svincolato dalla regola che gli impone di assolvere il convenuto se l’attore non prova il proprio assunto.

Al riguardo va però obiettato che ciascuna parte ha l’interesse all’accertamento ad essa più favorevole, e che il convenuto anziché assumere una linea di difesa adesiva può controbattere le ragioni dell’attore (specie se questi lamenti l’usurpazione di una striscia del fondo).

La tesi della duplicità dell’azione implica che in caso di totale inerzia delle parti il giudice dovrebbe provvedere d’ufficio ad accertare la linea di confine tra i fondi delle parti.

Ma una tale conclusione è stata smentita dalla stessa giurisprudenza, la quale ha riconosciuto che il giudice deve attenersi al principio della disponibilità delle prove pur avendo ampia facoltà di scegliere gli elementi decisivi per il suo convincimento.

Il codice prevede anche che in mancanza di altri elementi il giudice “si attiene al confine delineato dalle mappe catastali” (art. 950 c.c.). Questa norma assegna ai dati catastali un valore, per quanto sussidiario, che non viene loro riconosciuto nell’azione di rivendicazione. Neppure essa attribuisce tuttavia al giudizio carattere inquisitorio. L’attore che non disponga di altre prove deve quindi produrre i documenti catastali occorrenti per l’accertamento giudiziale dei confini. In mancanza, la sua domanda dev’essere respinta.

Codice del Consumo: innovazione o continuità?

Non è necessario dedicarsi a fare il “bilancio” dell’operazione legislativa messa in cantiere con l’adozione del cd. Codice del Consumo (1), entrato in vigore il 23 ottobre 2005, tuttavia in questa sede può essere utile rammentarne la genesi ed offrire una lettura “comparata” con la precedente legislazione, di cui esso costituisce un logico e fedele sviluppo.

Il Codice supera, infatti, la fase della frammentazione legislativa e della dispersione dei riferimenti, che aveva sinora caratterizzato il cd. diritto dei consumatori.

In tal modo, il legislatore ha inteso fornire una disciplina unitaria alla materia fino allora disorganica e non coordinata del diritto dei consumatori, con l’altisonante introduzione di un “codice” del “consumo”, avvenuta, in realtà, con la semplice trasposizione delle norme previgenti, salvo le sporadiche modifiche ed aggiunte, di cui vogliamo dar conto.

E’ utile a tal fine, anche a costo di cadere in un certo schematismo, configurare una sorta di mappa del provvedimento (2), al fine di chiarirne meglio la  trama.

Il Codice del Consumo (formato da 146 articoli) consta di sei parti, a loro volta divise in titoli:

  • parte prima – nel primo titolo vengono indicate le finalità del Codice, stabiliti i diritti fondamentali dei Consumatori, offerte le definizioni degli istituti richiamati nel Codice;
  • parte seconda – nel primo titolo viene introdotto il concetto di educazione del consumatore. Nel secondo vengono offerte definizioni rilevanti al fine di un’adeguata informazione. Nel titolo terzo vengono stabilite le regole generali in materia di pubblicità, vengono indicate le ipotesi di pubblicità ingannevole e le conseguenti forme di tutela amministrativa e giurisdizionale. Sempre nel titolo terzo vengono individuate forme di autotutela e viene regolata la fattispecie della televendita;
  • parte terza – nel titolo primo sono disciplinate le ipotesi di vessatorietà delle clausole contrattuali e viene attribuita in capo alle associazioni dei consumatori la legittimazione processuale a proporre azione inibitoria avverso le condizioni contrattuali ritenute abusive. Il titolo secondo regola l’attività commerciale ed il credito al consumo. Il titolo terzo disciplina i contratti negoziati nei locali commerciali e i contratti negoziati fuori dai locali commerciali, nonché i contratti a distanza. Quindi, prefissa le sanzioni per il professionista che contravviene alle indicazioni stabilite nel codice circa i contratti conclusi fuori dei locali commerciali o a distanza. Stabilisce per queste due categorie contrattuali regole comuni in materia di recesso. Infine, rinvia ad altre disposizioni per la disciplina del commercio elettronico. Il titolo quarto disciplina la multiproprietà, la proprietà ternaria ed i contratti aventi ad oggetto servizi turistici. Nel titolo quinto viene disposto l’obbligo dello Stato di garantire gli utenti nella fruizione dei servizi pubblici;
  • parte quarta – il titolo primo stabilisce le condizioni di sicurezza dei prodotti immessi sul mercato. Nel titolo secondo viene disciplinata la responsabilità extracontrattuale del produttore e del fornitore. Nel titolo terzo si regolamentano i contratti di vendita e le garanzie riguardanti i beni di consumo;
  • parte quinta – il titolo primo disciplina il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti e l’elenco delle associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale. Il titolo secondo definisce l’ambito della legittimazione ad agire in giudizio delle associazioni iscritte nel suddetto elenco e prevede le ipotesi di composizione extragiudiziale delle controversie;
  • parte sesta – va dall’art. 142 all’art. 146 e reca una serie di disposizioni peculiari.

Il Codice si apre con le “Disposizioni Generali”, in cui sono confluite molte delle norme della Legge-quadro dei diritti dei consumatori, la Legge n. 281/98 (3), confermando in pieno il quadro dei diritti dei consumatori ivi enucleato (art. 2), così come le definizioni di consumatore o utente, professionista, associazione dei consumatori, ora contenute nell’art. 3.

Sulla nozione di consumatore, in particolare, va evidenziato che il legislatore ne ha limitato l’ambito alla sola “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta” (salvo quanto si vedrà in relazione alla disciplina della pubblicità).

Pertanto, all’esito di un serrato dibattito sviluppatosi tra gli specialisti della materia, le associazioni di categoria ed il movimento dei consumatori, occorre  prendere atto del mancato ampliamento della categoria di consumatore, non includente alcuna persona giuridica, come auspicato da vari settori di categoria.

Il Decreto ribadisce alcuni fondamentali diritti dei consumatori già riconosciuti con la legge-quadro del 1998, ora abrogata:
a) alla tutela della salute;
b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi;
c) ad una adeguata informazione, al diritto di recesso e ad una corretta pubblicità;
d) all’educazione al consumo;
e) alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità’ nei rapporti contrattuali;
f) alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti;
g) all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.

Nella seconda parte il Codice disciplina l’educazione, l’informazione e la pubblicità, ed accoglie norme tratte da varie normative (4).

Rispetto alla formulazione della disciplina previgente è stata aggiunta una norma (art. 4) relativa all’educazione del consumatore di cui vengono individuate le finalità nel favorire la consapevolezza dei diritti, lo sviluppo dell’associazionismo, la partecipazione ai procedimenti amministrativi e la rappresentanza.

Il Titolo II, dedicato all’informazione ai consumatori (5), contempla poche modifiche rispetto alla normativa precedente: in particolare si è precisato che, ai fini delle norme sull’informazione, deve intendersi per consumatore “la persona fisica alla quale sono dirette le informazioni commerciali” (art. 5) senza riferimento alla natura professionale o meno del destinatario; viene aggiunto al contenuto minimo delle informazioni l’indicazione del Paese di origine dei prodotti se situato fuori dall’UE (art. 6) ed è introdotto l’obbligo per i distributori di carburanti di esporre in modo visibile dalla strada i prezzi praticati al consumo (art. 15).

Il Titolo III, relativo alla pubblicità (6), ha introdotto una ulteriore nozione di consumatore: ai fini delle norme sulla pubblicità e sulle altre comunicazioni commerciali, infatti, “si intende per consumatore o utente anche la persona fisica o giuridica cui sono dirette le comunicazioni commerciali o che ne subisce le conseguenze” (art. 18).

Orbene, nonostante l’adozione del Codice avesse, tra le altre, la finalità di rendere unitaria la normativa, la nozione di consumatore continua ad essere poliedrica e sfaccettata.

Sempre nell’ambito del Titolo III, troviamo, dopo la normativa (rimasta invariata) sulla pubblicità ingannevole e comparativa, nonché la rinnovata disciplina (articoli 28 – 32) a tutela del consumatore in materia di televendite (7), in cui viene stabilito, tra l’altro, che tali norme si applicano alle televendite “comprese quelle di astrologia, di cartomanzia ed assimilabili”.

La terza parte del Codice disciplina il rapporto di consumo e si apre con la disciplina dei contratti del consumatore in generale (artt. 33-37) (8).

In tale ambito, è rimasta invariata l’elencazione delle clausole vessatorie mentre la sanzione a carico delle clausole di cui sia accertata la vessatorietà, che nella precedente formulazione venivano dichiarate inefficaci, nel Codice sono invece dichiarate nulle: viene quindi introdotta una sanzione più incisiva rafforzando la tutela del consumatore.

Il Titolo II prevede una novità: la norma generale contenuta nell’art. 39, sull’obbligo di valutare i principi di buona fede, correttezza e lealtà nelle attività commerciali “anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori” seguita dalla disciplina del credito al consumo, artt. 40 – 43 (9).

Il Titolo III della terza parte, relativo alle “modalità contrattuali”, raccoglie agli artt. 45 – 61 le norme relative ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali e quelle relative ai contratti a distanza (10).

Tali normative (nella versione previgente) avevano ad oggetto la disciplina del cd. diritto di ripensamento del consumatore, ovverosia il suo diritto a recedere dai contratti medesimi, entro termini e con modalità stabilite dalla legge.

La trasposizione di tali norme è stata l’occasione per unificare la disciplina del diritto di recesso, ora collocata nell’autonoma sezione IV (artt. 64-68), adottando un unico termine per l’esercizio del diritto di recesso che è ora, in ogni caso, di 10 giorni lavorativi, generalizzando così la previsione più vantaggiosa per il consumatore, precedentemente limitata ai casi di recesso nei contratti a distanza (contro i sette giorni previsti nei contratti conclusi fuori dei locali commerciali).

La seconda modifica importante concerne la disciplina delle spese accessorie che il consumatore che eserciti il diritto di recesso è tenuto a rimborsare al professionista: mentre nella precedente disciplina era stabilito che il consumatore dovesse risarcire le spese accessorie indicate preventivamente nel contratto, l’art. 67, comma 3 del Codice stabilisce che “le sole spese dovute dal consumatore per l’esercizio del diritto di recesso sono le spese dirette di restituzione del bene al mittente, ove espressamente previsto dal contratto”.

La disposizione, quanto mai utile, elimina gli spazi nei quali i soggetti commerciali scorretti inserivano clausole tendenti a garantire rimborsi di asserite spese accessorie assolutamente esorbitanti, coartando quindi il consumatore che avesse esercitato il diritto di recesso a pagare, sotto forma di rimborso spese, vere e proprie penali.

L’ulteriore profilo di novità concerne, come sopra anticipato, la materia del credito al consumo: l’art. 67, comma 6, infatti, generalizza la regola (includendo anche i contratti negoziati fuori dei locali commerciali), precedentemente limitata ai soli contratti a distanza, secondo cui l’esercizio del diritto di recesso da parte del consumatore determina la risoluzione di diritto dell’eventuale contratto di finanziamento collegato al contratto di fornitura.

Nel Codice sono state inserite anche le norme concernenti i contratti aventi ad oggetto l’acquisizione di un diritto di godimento ripartito di beni immobili, (artt.69-81, già D. Lgs. n. 427/1998), e quelle sui servizi turistici (artt. 82-100 già D. Lgs. 111/1995), per le quali viene ora richiamata la nuova ed unificata disciplina del diritto di recesso, senza divergenze di rilievo rispetto ai precedenti testi.

Nella quarta parte del Codice, relativa alla sicurezza ed alla qualità, sono confluite, restando sostanzialmente invariate, anche le norme sulla sicurezza dei prodotti (artt.102-113, già D.Lgs. n.172/2004), sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi (artt. 114-127, già DPR 224/1988 e D.Lgs n.25/2001), nonché quelle sulla garanzia legale di conformità e le garanzie commerciali per i beni di consumo (artt. 128-135, già inserite agli artt.1519 bis – nonies del codice civile dal D.Lgs. n. 24/2002).

Tra le novità mancate si segnala, a proposito di tale ultima normativa, che la stessa è rimasta invariata e che, in particolare, non è stata modificata la previsione dell’art. 1519 quinquies, ora art. 131, che sancisce la natura disponibile del diritto di regresso del venditore finale, che abbia ottemperato i rimedi esperiti dal consumatore, nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili del difetto di conformità facenti parte della medesima catena contrattuale distributiva ovvero di qualsiasi intermediario.

Il venditore può rinunciare o escludere sin dall’inizio del rapporto il proprio diritto di regresso nei confronti dei venditori precedenti della medesima catena distributiva per la responsabilità nei confronti del consumatore.

E’ noto che tale previsione determina una posizione di debolezza dei piccoli rivenditori nei confronti delle grandi aziende che tendono ad imporre contrattualmente, in virtù della maggior forza negoziale, la preventiva rinuncia al diritto di regresso del venditore, scaricando così sui piccoli commercianti gli oneri relativi alla responsabilità verso i consumatori.

Proprio in ragione di tale fenomeno era stata ipotizzata una modifica della disciplina volta a tutelare i venditori finali.

La parte quinta del Codice, che disciplina le Associazioni dei Consumatori e l’accesso alla Giustizia, non modifica le norme previgenti ma aggiunge, all’articolo 141, una nuova regola per la composizione extragiudiziale delle controversie, intesa a favorire il ricorso alle procedure conciliative, specie quelle amministrate dalle Camere di Commercio (11).

Appare dunque particolarmente felice l’incipit di Enzo Maria Tripodi, il quale ha afferma, non senza una certa enfasi, che “con il nuovo Codice del consumo cambia tutto e niente” (12).

Con ciò evidentemente marcando l’accento sul “niente”, leggendo il testo normativo più che come un codice vero e proprio, come una mera collazione di norme già vigenti nel nostro ordinamento, semplicemente riordinate in un testo unitario.

Non solo. Le anomalie e le insufficienze si evidenziano, ad esempio, con il mancato inserimento delle normative più recenti ed innovative, come la regolamentazione dei servizi finanziari on line e del multi-level marketing.

Inoltre, non è stato inserito alcun riferimento al documento elettronico, quale strumento di comunicazione della volontà di recedere da parte del consumatore, che, considerata la previsione contenuta nel D.P.R. n. 523/97 che equipara il documento elettronico a quello cartaceo, il legislatore avrebbe potuto operare tale apertura.

Analizzando il testo del Provvedimento, le innovazioni rispetto alla normativa previgente sono:

  1. l’introduzione del titolo terzo, “garanzia legale di conformità e garanzie commerciali per i beni di consumo”;
  2. la eliminazione della definizione di consumatore, che si leggeva all’art. 1519 bis, secondo comma lett. a) del codice civile, dall’art. 128, secondo comma;
  3. all’art. 135, secondo comma, una norma di raccordo con il codice civile che non si trovava nell’articolo corrispondente e cioè l’art. 1519 nonies del codice civile.

Dunque niente di nuovo sotto il sole, se non una facilitazione per gli operatori del diritto. Il legislatore, per dirla con una dottrina che si è pronunciata sul tema (13), si è limitato ad effettuare un’operazione di copia-incolla della normativa previgente, che non garantisce una piena sistematicità alla disciplina del consumo.

Insomma, quel “tutto” riferito all’innovazione apportata dal Codice del Consumo, più che una realtà è una potenzialità, nel senso che il nuovo Codice rappresenta la volontà del legislatore di definire, in modo sempre più coerente e sistematico le regole poste a tutela del consumatore, anche se per il momento non sembra ancora esservi riuscito compiutamente.

 

Box delle fonti:

  1. Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206
  2. cfr., per il dettaglio, Guida al Diritto (Il Sole 24 ORE) n. 18 del 17 dicembre 2005
  3. di cui già in questa Rubrica, Tutela del consumatore: dal movimentismo alla codificazione, n. 6/2006
  4. in particolare, dalla Legge n. 281/98, dalla Legge n. 126/91 e dal Decreto Ministeriale n. 101/97
  5. materia già raccolta nel D. Lgs. n. 84/2000, cui si rinvia
  6. sostitutivo dei decreti legislativi nn. 74/1992 e 67/2000
  7. già contenuta nelle Leggi nn. 120/1998 e 39/2002
  8. precedentemente incasellata nel codice civile agli artt. 1469 bis – sexies
  9. già prevista dai decreti legislativi nn. 63/2000 art. 125, commi 4° e 5°, e 385/1993
  10. già D. Lgs. 50/1992 e D. Lgs.185/1999
  11. tra i primi commenti organici, v. A. Lisi (a cura di), Codice del Consumo, Edizioni CiErre, 2006; G Briganti, Guida al Codice del Consumo, Edizioni CiErre, 2006
  12. Enzo Maria Tripodi, Ettore Battelli – Codice del consumatore. Guida pratica alla nuova normativa – IPSOA, 2006
  13. Giorgio De Nova – La disciplina della vendita dei beni di consumo nel “Codice” del consumo – I Contratti, Rivista di dottrina e giurisprudenza, n. 4 del 2006 (IPSOA)